Le strade di Santiago del Cile ricordano i fantasmi del passato. La capitale militarizzata, gli scontri con le forze di sicurezza. Lo stato di emergenza e il coprifuoco, ormai esteso anche ad altre città, una misura che non veniva presa dagli anni della dittatura di Augusto Pinochet. Il governo di Sebastian Piñera ha schierato carri armati e soldati per la prima volta dal 1990, quando il paese era tornato alla democrazia. Il ministro dell’Interno, Andrès Chadwick, ha dichiarato che sono stati impiegati oltre 10mila uomini armati e che, se necessario, le misure saranno aumentate.
Gli attivisti denunciano le violenze dell’esercito e della polizia usando i social media, diventati uno strumento per mostrare le aggressioni e le violazioni dei diritti di chi sta partecipando alle proteste. Come fa vedere il video ottenuto da TPI, in cui un militare colpisce a una gamba un uomo disarmato in strada. Si contano, al momento e secondo i dati ufficiali, almeno venti morti e centinaia di feriti.
Oggi, mercoledì 23 ottobre, nel corso della prima marcia convocata dai sindacati in risposta alle ultime dichiarazioni del capo dello Stato, i manifestanti hanno sfilato con le mani alzate per mostrare che sono senza armi e non violenti. E che, come si legge sui cartelli che stringono in mano, “non siamo in guerra ma siamo in strada per difendere la nostra dignità”. La polizia ha risposto usando i gas lacrimogeni.
“Mi angoscia vedere i militari in strada. Mi ricorda i tempi della dittatura. E so cosa significa perché l’ho vissuta insieme alla mia famiglia”, dice a TPI Carolina (nome di fantasia), che vive e lavora a Santiago.
“In Cile è stato privatizzato tutto. Se non soldi, non puoi andare all’università. Se non ti puoi permettere di pagare, non puoi nemmeno essere curato in ospedale. I ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. In tutti questi anni, la rabbia si è accumulata. Le manifestazioni sono una rivolta contro un sistema che non ha mai smesso di abusare del popolo cileno, che ormai ha detto basta. Il governo non ha coscienza di quello che realmente succede nel paese e della condizioni di vita dei suoi cittadini”.
Iniziate contro l’aumento del prezzo del biglietto della metro nella capitale, le proteste hanno in tempi rapidi assunto un significato più ampio e coinvolto diverse fasce della popolazione cilena. Non solo gli studenti universitari di Santiago, da cui sono partite le contestazioni, ma anche le classi sociali più in difficoltà nel paese.
Il Cile di Piñera, eletto con i voti della destra post-pinocherista e dei nostalgici del regime militare alla fine del 2017, è uno degli stati con un livello di diseguaglianza tra i più elevati al mondo. Secondo un rapporto dell’Ocse, è ultimo tra i paesi membri per l’impatto delle misure pubbliche (imposte, sussidi, detrazioni fiscali e incentivi) sulle disuguaglianze. Il welfare è inesistente.
Lo stipendio minimo stabilito per legge è di 301mila pesos cileni (370 euro) ma, secondo i dati dell’Istituto nazionale di statistica del Cile, la metà dei lavoratori percepisce un salario non superiore a 400mila pesos (490 euro). L’educazione è privata, come la sanità.
Amnesty International ha chiesto al presidente cileno di garantire il rispetto dei diritti umani durante lo stato d’emergenza – con cui si affidano alle forze armate funzioni di mantenimento dell’ordine pubblico – sottolineando che questa decisione “non fa che aumentare i rischi che si commettano violazioni”. Già nei giorni scorsi, sono stati segnalati arresti arbitrari di manifestanti.
“Invece di reprimerle, il governo cileno dovrebbe trovare soluzioni alle richieste provenienti dalle proteste e indagare su tutte le denunce di violazioni dei diritti umani segnalate nel corso delle manifestazioni”, ha dichiarato Erika Guevara-Rosas, direttrice di Amnesty International per le Americhe.
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