Chirac addio: se ne va un pezzo di Francia (e di destra) che non c’è più
L’addio di Chirac, all’età di ottantasei anni, non è solo la morte di un presidente francese ma la scomparsa di una certa idea di Francia. Non sarebbe mai esistita, infatti, la carriera politica di quest’uomo destinato a ricoprire i principali incarichi di governo d’oltralpe, se la sua avventura umana non avesse incrociato la stagione apicale del gaullismo.
Analizzando le condizioni in cui versa la politica francese, e in particolare una destra stretta oggi fra revanscismi nazionalisti e tendenze sovraniste che rievocano le fasi più tragiche della storia recente del Paese, tornano in mente le elezioni presidenziali del 2002. Torna in mente la sofferenza dei socialisti che, suicidatisi con Jospin e con l’inseguimento ai dogmi della Terza via blairiana negli anni della coabitazione, furono costretti a scegliere la destra civile contro quella “diabolica” di Le Pen padre.
L’Alleanza repubblicana
La chiamarono “alleanza repubblicana” in nome dei valori della Repubblica, della difesa dei sacri princìpi della Rivoluzione francese, di quegli ideali di libertà, uguaglianza e fratellanza che una vittoria della destra nostalgica dell’Oas (Organisation armée secrètee), per nulla incline, all’epoca, a riconoscere le colpe del governo di Vichy nella mattanza del Vélodrome d’Hiver, avrebbe messo in discussione.
Osservammo con una punta d’invidia la vicenda di un grande paese, sconvolto e lacerato come mai prima, che tuttavia riusciva a riunirsi intorno alla propria bandiera, intorno ai capisaldi della sua storia, intorno a dei concetti imprescindibili per la tenuta stessa della democrazia. Molti anni sono trascorsi da allora. La destra si è “de-diabolizzata” e Marine Le Pen ha avuto l’astuzia di ripulire il partito da alcuni toni e da alcuni esponenti che lo rendevano invotabile agli occhi di una moltitudine di francesi, tanto che alle ultime Presidenziali l’alleanza repubblicana ha retto, sì, ma con percentuali assai diverse rispetto all’86 a 14 del 2002.
Chirac e De Gaulle
Diciamo che Jacques Chirac, protagonista per mezzo secolo della politica transalpina, con le sue luci e le sue ombre, le sue furbizie e le sue immancabili controversie, è stato l’ultimo interprete della concezione partigiana della destra. Sono assunti per noi incredibili, il che ci interroga sulle peculiarità della storia francese e sulle sue caratteristiche, in quanto da quelle parti la destra gaullista non solo non è mai stata fascista ma, al contrario, proprio come Churchill nel Regno Unito, ne è stata la nemesi e la più strenua oppositrice.
Non è un caso se nel 1958 venne chiamato proprio il Generale a prendersi cura di una Nazione sull’orlo della guerra civile, con la questione algerina ancora sanguinante e una decolonizzazione dell’Africa che ormai era nei fatti ma che le frange più conservatrici dell’apparato statale e burocratico francese si rifiutavano di accettare. E non è un caso se fu De Gaulle ad agevolare la fine del controllo francese su paesi che erano stati per decenni costole della Madrepatria, riuscendo a mantenerle comunque nella propria sfera d’influenza, creando il mito concreto della “Françafrique” e favorendo una fuoriuscita dal protettorato meno cruenta di quanto sia avvenuto altrove.
Non è un caso se, al crepuscolo di una Quarta repubblica ormai inservibile e caratterizzata dalla più assoluta instabilità, la Quinta repubblica sia stato il capolavoro di un uomo d’azione chiamato a occuparsi della cosa pubblica come una sorta di missione divina. Jacques Chirac, formatosi in quegli anni, di quella storia ne è stato osservatore e parte in causa: sia come sindaco di Parigi sia come primo ministro sia infine come presidente, riflettendo l’immagine di De Gaulle in una fase storica completamente diversa ma non per questo meno significativa.
Chirac e l’Europa
Presidente della Repubblica a cavallo del cambio di secolo e di millennio, eletto appena sei anni dopo la caduta del Muro di Berlino, ha portato avanti sia i valori gaullisti di una destra pienamente repubblicana e animata da un’idea di grandeur che poneva la Francia al centro di tutto sia, al contempo, i princìpi mitterrandiani di buon vicinato con la Germania, ritagliandosi un proprio posto nello scacchiere continentale attraverso l’appoggio alla costruzione dell’Europa e allontanandosi, su questo aspetto dirimente, dagli insegnamenti e dalla visione del mondo del suo maestro.
Racconta Romano Prodi che una volta, rispondendo alla domanda di un incauto cronista sul ruolo dell’Italia nella moneta unica, Chirac si sia opposto all’idea di un’Unione europea che ci vedesse ai margini e gli abbia risposto: “Monsieur, l’Europe n’existe pas sans l’Italie”. Sapeva, da uomo del Novecento che, sia pur bambino, aveva conosciuto l’incubo del secondo conflitto mondiale, che l’Europa fosse nata proprio per rendere impossibili quei diluvi e che, pertanto, Italia e Germania sarebbero state indispensabili in ogni successivo processo di integrazione e di formazione del consenso intorno a un sogno nato dalle intuizioni di tre uomini di frontiera come De Gasperi, Adenauer e, per l’appunto, il francese Schuman.
Chirac addio
Il caso di Jacques Chirac è stato uno dei pochi in cui sia davvero lecito asserire che, all’Eliseo, come in ogni altra notevole esperienza della sua vita pubblica, si sia portato dietro il peso della propria storia e di tutto ciò che essa comporta. Negli ultimi anni è giunto l’oblio, la perdita della memoria, il buio, l’assenza. Se ne è andato quando si è alleggerito del fardello che, nel bene e nel male, si era portato dietro per tutta la vita. La ragione stessa della sua passione civile e del suo impegno politico.
Leggi l'articolo originale su TPI.it