Quando nell’agosto 1999 il presidente russo Boris Eltsin si convinse che il suo tempo era ormai finito, fu l’allora 33enne Roman Abramovich a suggerirgli il nome di Vladimir Putin per la successione. Prima di diventare presidente, Putin fu nominato primo ministro, e il giovane Abramovich – imprenditore già affermato ma senza alcuna carica pubblica – partecipò ai colloqui per la selezione dei ministri del governo. Nell’ottobre di quell’anno Abramovich fu invitato alla festa di compleanno di Putin e si presentò con un pacco regalo minuscolo: dentro c’erano le chiavi di uno yacht da 50 milioni di dollari. A raccontare questi intrighi di palazzo, qualche anno fa davanti a un giudice inglese, è stato Boris Berezovsky, ex socio d’affari di Abramovich, poi divenuto suo grande accusatore, quindi caduto in rovina e infine trovato morto suicida nella sua casa a Sunninghill, nelle campagne verdi fuori Londra, dove si era rifugiato per scampare alle autorità russe che volevano arrestarlo. Secondo Berezovsky, negli anni Novanta Abramovich era talmente vicino al presidente Eltsin che per un periodo andò persino ad abitare in un appartamento all’interno del Cremlino. Anche oggi però, a distanza di un quarto di secolo, restano molto solide le relazioni politiche dell’oligarca Roman, un uomo assetato di successo ma allo stesso tempo sfuggente, capace di affermare se stesso dagli umili inizi come venditore ambulante fino a diventare il miliardario russo più famoso nel mondo occidentale, titolare di un patrimonio valutato oltre 13 miliardi di dollari da Forbes. Proprio per il ruolo che ancora gioca nella rete di potere di Putin, Abramovich nei giorni scorsi è stato inserito nella lista delle persone russe sanzionate da Regno Unito e Unione europea come misura di contrasto all’invasione dell’Ucraina. Tra le conseguenze che hanno suscitato più clamore c’è il congelamento delle attività societarie del Chelsea, squadra di calcio di Londra, campione d’Europa in carica, che il magnate possiede dal 2003.
Non solo: a conferma del vecchio proverbio secondo cui le disgrazie non vengono mai da sole, una settimana fa il rabbino di Porto, Daniel Litvak, è stato arrestato dalla polizia locale con l’accusa di aver illecitamente favorito la concessione della cittadinanza portoghese – e quindi europea – ad Abramovich nell’aprile 2021.
Ma Abramovich, presidente della Federazione delle comunità ebraiche russe, ha anche la cittadinanza israeliana. Gli fu concessa nel 2018 dopo che le autorità del Regno Unito non gli avevano rinnovato il visto a causa delle tensioni con Mosca per l’avvelenamento dell’ex spia russa Sergej Skripal: grazie al passaporto israeliano, in questi anni l’oligarca è potuto entrare in territorio britannico anche senza visto. Il rapporto fra Abramovich e Israele si è cementificato su una lunga serie di donazioni milionarie, tra cui quelle all’università e all’ospedale di Tel Aviv ma anche ai coloni che acquistano proprietà immobiliari su suolo palestinese. Non a caso, in questi giorni i rappresentanti delle principali istituzioni culturali israeliane hanno pregato l’ambasciatore dello Stato ebraico a Washington di spendersi affinché gli Stati Uniti non impongano sanzioni ad Abramovich, che recentemente ha finanziato anche con 10 milioni di dollari un progetto del Museo della Shoah di Gerusalemme.
Quel treno dirottato
I nonni paterni del magnate, ebrei bielorussi emigrati in Lituania, morirono negli anni Quaranta in un campo di concentramento sovietico in Siberia. I nonni materni, invece, erano ucraini. Proprio queste origini spiegano perché Kiev gli abbia chiesto di partecipare ai negoziati con Mosca per una tregua al conflitto in corso.
Roman è nato il 24 ottobre 1966 a Saratov, città portuale sul fiume Volga nella Russia europea meridionale. A soli 4 anni era già orfano di entrambi i genitori: sua madre, insegnante di musica, morì in seguito a un aborto quando lui aveva poco più di un anno; poco dopo il padre rimase schiacciato sotto una gru in un cantiere edile. Il ragazzo fu così allevato dagli zii nel nord del Paese, nella tundra dimenticata della repubblica dei Komi. Dopo il servizio militare, il giovane Abramovich iniziò a cercare la propria strada: venditore ambulante, meccanico, selezionatore di guardie del corpo, e poi molto contrabbando sul mercato nero di sigarette, jeans, cioccolata. Alla fine degli anni Ottanta, con la Perestroika, Roman mise su una ditta specializzata nella produzione di bambole e papere di gomma. Ma il settore non era abbastanza redditizio per le sue smanie di grandezza. La sua vera ambizione era sfondare nel petrolio. C’era solo un problema: per lanciarsi negli idrocarburi servivano ingenti capitali di partenza che lui non aveva. E qui ecco un episodio che ben racconta la spregiudicatezza del personaggio. Un giorno del 1992 – l’Unione Sovietica era crollata da poco – l’allora rampante 26enne, falsificando alcuni documenti ferroviari, riuscì a dirottare un treno che trasportava 3 milioni di chili di diesel per un valore di 4 miliardi di rubli. Il convoglio, partito da Ukhta e diretto a Kaliningrad, fu deviato a Riga, in Lettonia, dove il futuro oligarca rivendette la merce intascando il ricavato. Ma la sfrontatezza non lo premiò: Abramovich fu arrestato per furto di proprietà governativa e sbattuto in carcere. Tutt’oggi nega di aver falsificato quei documenti, eppure sembra che – una volta finito dietro le sbarre – si mostrò collaborativo con le autorità e risarcì il maltolto, tanto che presto tornò in libertà. L’anno successivo incontrò l’uomo che gli cambiò la vita: Boris Berezovsky (ricordate? È colui che svelerà gli intrighi di palazzo tra Abramovich e Putin). Berezovsky, più vecchio di lui di vent’anni, all’epoca era un imprenditore già navigato e molto vicino all’allora presidente Eltsin. Insieme con Abramovich fondarono cinque società, fra cui l’affiliata moscovita della svizzera Runicom, che commercializzava petrolio.
Le mani sul petrolio
La svolta arrivò nel 1995, quando Eltsin decretò la nascita della società petrolifera Sibneft (oggi Gazprom) e ne affidò il controllo alla coppia Roman-Boris per 200 milioni di dollari, cifra clamorosamente inferiore al reale valore di mercato, su cui pesa l’ombra delle tangenti. Quando nel 2005 Abramovich rivenderà la sua quota, incasserà complessivamente circa 12 miliardi di dollari, somma che reinvestirà nel settore dell’acciaio comprando il gigante Evraz (oggi sanzionato per aver contribuito alla costruzione dei carri armati russi). Alla fine del secolo scorso, ormai divenuto a tutti gli effetti un oligarca, Abramovich si buttò anche in politica, facendosi eleggere governatore del gelido circondariato della Chukotka, regione affacciata sullo stretto di Bering, davanti alle coste dell’Alaska. Manterrà la carica per una decina d’anni, fino al 2008, durante i quali finanzierà lo sviluppo della regione investendo di tasca propria oltre un miliardo di dollari.
Con il cambio della guardia al Cremlino fra Eltsin e Putin, Abramovich fu tra i pochi miliardari a mantenere invariato il proprio status. Lui e Berezovsy furono fra i principali facilitatori dell’ascesa politica di Putin. Tuttavia, ben presto fra il neo-presidente e l’amico Boris emersero frizioni che ebbero il loro culmine quando una televisione di proprietà dell’oligarca criticò duramente Putin per il modo in cui aveva gestito la vicenda del sottomarino russo Kursk, affondato nel Mare di Barents durante un’esercitazione. In poche settimane Berezovsky fu di fatto espropriato delle sue attività imprenditoriali e messo sotto indagine per un caso di frode. Scappò nel Regno Unito e le sue quote in Sibneft passarono nelle mani di Abramovich.
Alla conquista del West
Berezovsky accusò l’ex socio di aver tramato alle sue spalle. Una decina d’anni dopo lo citerà in giudizio a Londra chiedendogli un risarcimento da 6 miliardi di dollari, in quello che le cronache britanniche raccontarono come «il processo degli oligarchi». Per la cronaca, il giudice respinse la richiesta di Berezovsky e lo condannò a pagare le spese processuali, il ché lo mandò in bancarotta e – forse – fu tra le ragioni che lo spinsero al suicidio nel 2013.
Londra è la città d’adozione di Abramovich: qui, diciannove anni fa, per 140 milioni di sterline, ha comprato la squadra di calcio del ricco quartiere di Chelsea. I blues non vincevano il campionato inglese da 50 anni, ma grazie alle sue spese folli sono diventati uno dei club più forti del mondo con campioni del calibro di Drogba, Lampard, Terry e un feeling particolare con gli allenatori italiani (ben cinque: Ranieri, Ancelotti, Di Matteo, Conte e Sarri). Una cavalcata fermata bruscamente la scorsa settimana dalle sanzioni contro l’oligarca per la guerra in Ucraina. Il Chelsea – ribattezzato «Chelski», alla russa – è peraltro solo la preda più famosa dell’impetuosa campagna acquisti di Abramovich in Occidente. Nel corso degli anni il magnate ha messo le mani su decine di palazzi nelle zone più esclusive di Londra, Manhattan e della Costa Azzurra. Ha comprato le più costose auto sportive italiane. Ha organizzato feste ingaggiando le più famose star della musica mondiale, dai Red Hot Chili Peppers a Robbie Williams (che si dice si sia ispirato a lui per la canzone “Party like a russian”). La sua grande passione, tuttavia, sono gli yacht: ne ha comprati e venduti un’intera flotta, e oggi ne ha due pagati complessivamente oltre un miliardo di dollari. Poi c’è il jet personale: un Boeing 767 che ha lo stesso sistema di prevenzione dei missili aerei dell’Air Force One.
Forse per affrancarsi dal complesso di essere un parvenu, Abramovich ha anche fatto di tutto per imporsi nel mondo dell’arte. Ovviamente a suon di dollari. Nel 2008, in una sola settimana, ha speso 120 milioni per accaparrarsi le opere più preziose messe all’asta a New York. Un’avidità cieca che ha fatto storcere il naso a molti, nei circoli artistici della Grande Mela. Ma che non gli ha impedito di essere nominato consigliere del Metropolitan Museum. Negli Stati Uniti, ma in California, l’oligarca ha conosciuto nel 2008 la sua terza moglie, Dasha Zhukova, figlia di un altro miliardario russo, Alexander Zhukov. Da lei ha avuto due figli, Aaron e Leah Lou, prima di un divorzio da oltre 90 milioni di dollari nel 2018. Sono in tutto sette in figli di Abramovich: gli altri cinque li ha fatti con la sua seconda moglie, Irina Malandina, ex hostess dell’Aeroflot, con cui le strade si sono separate nel 2007, dopo diciotto anni di matrimonio, sulla base di un accordo da 300 milioni di dollari più il mantenimento della prole. Della prima consorte di Roman, Olga Lysov, non si sa molto, se non che i due sono stati sposati dal 1987 al 1990 e non hanno avuto figli. Abramovich non ha mai parlato di lei nelle rarissime interviste concesse in questi trent’anni di successi imprenditoriali. Malgrado l’imperativo che si è dato di scalare il mondo, il personaggio non ama parlare in pubblico. Preferisce agire nelle retrovie, badando molto al risultato e poco o nulla ai mezzi sfoggiati per raggiungerlo. Qualche anno fa, parlando con un giornalista francese di Le Monde, ha tirato fuori una frase che potrebbe essere rivelatrice del suo segreto: «Sapete qual è la differenza tra un ratto e un criceto? Nessuna, è tutta una questione di pubbliche relazioni».