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    A 11 anni dalla sua formazione la Bosnia-Erzegovina è più divisa che mai

    Il primo censimento post-Dayton rileva che la popolazione totale è diminuita ma la componente bosniaca è cresciuta, scuotendo il frammentario quadro politico nazionale

    Di TPI
    Pubblicato il 14 Lug. 2016 alle 12:42 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 16:41

    I risultati del primo censimento post-Dayton in Bosnia-Erzegovina mostrano che la popolazione del paese è diminuita di quasi 20 punti percentuali rispetto al precedente e ultimo studio del 1991. Le statistiche rilevano che la popolazione totale dell’ex Repubblica jugoslava si aggira attorno a 3,5 milioni di abitanti (845mila in meno rispetto al 1991) ed è così composta: 50,11 per cento bosniaci (musulmani), 30,8 per cento serbi (ortodossi) e 15,4 per cento appartengono all’etnia croata (cattolici). La pubblicazione dei risultati è stata rimandata per più di due anni per paura degli eventuali scontri politici.

    Anche se la Bosnia-Erzegovina ha perso quasi un quinto della popolazione totale negli ultimi 25 anni, i risultati delle ultime statistiche demografiche mostrano invece che la componente bosniaca, rispetto alle altre due etnie, è cresciuta e costituisce oggi la maggioranza con il 50,11 per cento della popolazione totale. Come si temeva, data la lunga attesa nella pubblicazione dei dati ufficiali, questo risultato ha causato una “scossa” all’interno del quadro politico nazionale e rischia di scompaginare ulteriormente quell’equilibrio fragile che si era riuscito a ottenere con l’implementazione di quel labirinto costituzionale nato con gli Accordi di Dayton del 1995.

    In effetti, subito dopo la pubblicazione dei dati ufficiali da parte dell’Agenzia nazionale delle statistiche, la Republika Srpska ha disconosciuto la validità di questo censimento, dal momento che, a loro parere, la componente etnica serba è più numerosa rispetto al dato ufficiale rilevato.

    Le statistiche precedenti sulla composizione demografica del paese risalgono al 1991. Secondo i dati di allora, la Bosnia-Erzegovina aveva 4,4 milioni di abitanti di cui 31,2 per cento serbi, 14,4 per cento croati e 43,5 per cento appartenente invece all’etnia bosniaca. La mancanza di una componente etnica maggioritaria convinse la comunità internazionale a ricercare una “formula” costituzionale tale da far convivere e governare le tre etnie presenti in modo da “soddisfare” tutti. Cercando di considerare tutti questi fattori, il negoziato di Dayton, guidato dall’ex diplomatico statunitense Richard Holbrooke, diede vita al più complesso labirinto costituzionale mai esistito.

    La struttura statale della Bosnia-Erzegovina è un garbuglio con due entità indipendenti (Federazione di Bosnia-Erzegovina e Republika Srpska), cinque presidenti, tre parlamenti, tre governi, due eserciti (senza considerare poi le truppe militari delle missioni internazionali), due alfabeti, tre religioni e una folla di ministri e sottosegretari, dove le uniche leggi valide per tutte le comunità riguardano soltanto la bandiera, l’inno “nazionale”, i passaporti, le targhe e la polizia di frontiera.

    Questa decentralizzazione avanzata ha contribuito a frammentare ulteriormente il paese lungo le linee entiche, rendendo così assai problematico il processo di decision making del governo centrale. Tale divisione in pratica non ha fatto altro che spaccare il paese in due entità separate, lontano da qualsiasi tentativo di multietnicità all’interno di un contesto nazionale unitario e coeso, come volevano invece i “padri costituenti”.

    Inoltre, l’altro elemento che ha contribuito negativamente allo stallo istituzionale bosniaco è il secondo pilastro previsto negli Accordi di Dayton, ossia il complesso sistema di quote per la salvaguardia dei diritti delle diverse etnie. Questo sistema, in un paese frammentato lungo le persistenti divisioni etnico-culturali, ha creato una miriade di poteri di veto cha travolge periodicamente l’intero impianto decisionale, complicando ulteriormente lo state building bosniaco. 

    Se da una parte Dayton ha rappresentato la fine di un sanguinoso conflitto, dall’altra ha fallito nell’intento di creare uno stato istituzionalmente e politicamente governabile. L’ex Alto Rappresentate per la Bosnia, Paddy Ashdown, disse che Dayton è stato “un accordo eccellente per terminare una guerra, ma una pessima intesa per costruire uno stato”. 

    In un quadro così complicato, i risultati di questo censimento avranno sicuramente un impatto sulla politica del paese. Inoltre, visti i risultati dell’Accordo di Dayton in merito alla governabilità, si è discusso a lungo se la Costituzione non debba essere revisionata in modo da raggiungere progressivamente i tratti di uno stato effettivamente unitario e governabile.

    Alcuni analisti considerano i dati del censimento come una grande “scossa” per la politica bosniaca. Infatti, secondo Zlatko Disdarević, giornalista bosniaco e profondo conoscitore di questioni balcaniche, tutto ciò contribuirà sicuramente a destabilizzare ulteriormente l’intero impianto di pesi e contrappesi a favore dei partiti bosniaci che, appellandosi a quel 50,11 per cento di maggioranza, pretenderanno di assumere più potere decisionale in materia di statualità, prolungando così all’infinito lo stallo istituzionale.

    — L’analisi è stata pubblicata da ISPI con il titolo “Bosnia-Erzegovina: il censimento di uno stato che non c’è” e ripubblicata in accordo su TPI con il consenso dell’autore 

    *Francesk Fusha, ricercatore tirocinante ISPI

    Leggi l'articolo originale su TPI.it
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