Rispetto della costituzione ed esercizio della democrazia non sono sempre sinonimi: in Catalogna, ieri, catalani hanno giocato l’espressione della democrazia per eccellenza, il voto, contro il dettato della costituzione; mentre gli spagnoli si sono trincerati dietro la lettera della costituzione negando lo spirito della democrazia. C’era probabilmente, anzi c’era sicuramente modo di non esasperare fino a questo punto le tensioni tra Madrid e Barcellona. Ma, dall’una e dall’altra parte, c’è stata incapacità, o indisponibilità, alla mediazione; e gli scambi di accuse e gli scarichi di responsabilità dopo l’attentato sulla Rambla di metà agosto hanno ulteriormente inasprito la situazione.
Così, il referendum c’è stato. Ma è stato un simulacro di consultazione: la libertà e il diritto di voto sono stati conculcati; e le condizioni di voto (senza garanzia di segretezza e senza la certezza che una persona non votasse più volte) erano approssimative. I dati ufficiali parlano di oltre due milioni di catalani alle urne, più o meno i due quinti degli aventi diritto, con un 90 per cento di sì all’indipendenza (la stragrande maggioranza dei contrari non sono semplicemente andati ai seggi). Un risultato largo, ma non probante: non un plebiscito di popolo, ma un plebiscito del popolo di parte.
Adesso, siamo al punto che i catalani, che non hanno tanta voglia di essere ‘spagnoli’, ma che non hanno nessuna voglia di non essere ‘europei’, devono scegliere tra la Spagna e l’Unione: se ci sarà la dichiarazione d’indipendenza – e resta da vedere -, essa significherà l’uscita dall’Unione, senza avere in tasca il biglietto di ritorno, perché ogni paese ha diritto di veto su una nuova adesione (e, dunque, Madrid potrebbe tenere Barcellona fuori dall’Ue).
Siamo in una situazione speculare rispetto a quella scozzese: il no all’indipendenza nel referendum del 2014 fu anche favorito dal timore di ritrovarsi fuori dall’Unione; mentre un sì all’indipendenza in un referendum prossimo venturo potrebbe essere incoraggiato dalla decisione britannica d’uscire dall’Ue.
Lo si sapeva pure prima, è chiaro ora. Chi, prima e ora, invocava e invoca l’Europa, deprecandone il silenzio, e l’imbarazzo, di fronte a questa vicenda, non ne conosce la struttura e i meccanismi: un’Unione di stati che rispettano l’un altro i propri ordinamenti, cioè le proprie costituzioni. E che quindi paventano, a vicenda, scissioni non concordate nei paesi membri.
E non c’è dubbio che la vicenda catalana incoraggerà autonomismi, secessionismi, indipendentismi, in un continente che nel dopoguerra contava una trentina di stati e che oggi ne ha oltre 40, causa lo sgretolamento di Urss e Jugoslavia e la separazione tra cechi e slovacchi.
I referendum, specie quelli per l’indipendenza, sono strumenti strani, difficili da maneggiare e che suscitano reazioni contraddittorie. Chi, nel segno del diritto dei popoli all’autodeterminazione, provava ieri simpatia per la causa scozzese e oggi per quella catalana, che cosa dirà, o scriverà, se e quando a votare per l’indipendenza pretendessero di essere, ad esempio, i veneti? Chi, oggi, mette la sordina alla costituzione (spagnola) per il rispetto della democrazia (catalana), che cosa dirà, o scriverà, se e quando forze politiche italiane dovessero promuovere, contro la costituzione, referendum sul mantenimento dell’euro, o sulla permanenza nell’Unione?
Non sempre c’è coerenza negli atteggiamenti. Ricordiamoci che cosa accadeva negli anni bui – e molto più drammatici di quanto non lo sia finora stata la vicenda catalana – dello smembramento della Jugoslavia: il diritto all’autodeterminazione dei popoli, regolarmente invocato per la Slovenia e la Croazia e pure per paesi mai esistiti e dalla improbabile composizione etnica come la Bosnia, veniva regolarmente negato quando a invocarlo erano i serbi di Croazia o di Bosnia, che volevano essere serbi. Senza tenere in conto che le frontiere degli stati della Federazione jugoslava era state disegnate in funzione della Federazione, mescolando le etnie.
Fino al caso del Kosovo, la cui autoproclamata indipendenza è così giuridicamente controversa che tuttora, quasi vent’anni dopo, molti paesi di tutto il mondo e diversi paesi dell’Unione europea, fra cui, non a caso, la Spagna, non la riconoscono.
Che cosa accadrà, adesso, nell’Unione europea? Prima di rispondere, bisogna vedere che cosa accadrà in Spagna: se la spaccatura si rivelerà irreparabile o se le circostanze stesse in cui s’è prodotta indurranno tutti i protagonisti a cercare una via d’uscita nel dialogo, rinunciando gli uni e gli altri ai massimalismi.
Personalmente, io non so se la Spagna e la Catalogna non siano più compatibili l’un l’altra; ma sono certo che sono entrambe compatibili con l’Europa e indispensabili all’Europa.
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