Il Parlament della Catalogna ha 137mila followers su Twitter. Non è di certo ai livelli del Barça, ma i followers sono molti di più di quelli di tutti gli altri consigli regionali spagnoli e della media dei parlamenti nazionali degli altri paesi europei.
Solo il parlamento britannico è più seguito di quello della regione catalana. Cos’è che attira così tanto l’attenzione del pubblico di Twitter? Di fatto, durante l’ultima legislatura il Parlament è divenuto il centro mediatico della vita politica catalana. È nelle sue camere che si discutono temi “caldi” e in cui, per esempio il 27 luglio scorso è stato approvato un documento che marca i passi necessari per arrivare all’indipendenza della Catalogna.
Convocare un referendum tra i cittadini catalani entro il settembre 2017 è il primo di questi passi. Ma a cosa si deve questo rinnovato fervore indipendentista? In Italia si è parlato ultimamente della singolare situazione della Spagna, un paese fino a pochi giorni fa senza governo eppure in piena espansione economica, con un Prodotto interno lordo (Pil) annuale in crescita del 3 per cento.
Al Pil spagnolo contribuisce in buona misura la Catalogna, una regione, insieme ai paesi baschi, tradizionalmente “ricca” (il Pil pro capite in Catalogna è al di sopra della media dell’Unione Europea). L’economia catalana contribuisce di fatto a un 20 per cento dell’economia spagnola. Eppure il bilancio regionale, in seguito alla crisi, è nettamente in deficit.
Molti catalani pensano che se tutte le tasse che pagano rimanessero in Catalogna, non ci sarebbe debito pubblico, si potrebbero evitare tagli e aiutare le persone più bisognose.
La crisi non ha fatto altro che esasperare un sentimento secolare diffuso tra la borghesia e le classi popolari catalane, che è quello di dare “di più di quel che si riceve” alla Spagna, uno Stato storicamente percepito come ostile e straniero. Per questo, con la crisi il voto indipendentista, tradizionalmente stabile e intorno al 15-20 per cento, ha raggiunto praticamente il 50 per cento della popolazione.
Il Parlament si contraddistingue per un’altra caratteristica significativa, oltre al numero dei suoi followers: la disposizione dei deputati. Al vecchio asse “destra/sinistra” se ne aggiunge infatti un’altro, molto più significativo: quello “sopra/sotto”, che separa i gruppi pro o contro l’indipendenza.
Basti pensare che la coalizione attualmente al governo in Catalogna comprende uno spettro di formazioni politiche che vanno dal centrodestra del Partit Democràta Català (Pdc) alla sinistra repubblicana di Erc fino al movimento della Candidatura di Unità Popolare (Cup), una formazione politica sorta direttamente dai movimenti sociali e che si definisce esplicitamente anticapitalista, femminista e indipendentista.
Cosa unisce attori politici così diversi? Un solo punto dei loro programmi: l’indipendenza. Che forze così radicalmente diverse si trovino in questo momento insieme al governo è indice del fatto che alle ultime elezioni un 48 per cento dei cittadini catalani, indipendentemente dal loro orientamento politico, hanno espresso il loro appoggio a partiti che hanno fatto dell’indipendenza la loro bandiera politica.
Da Madrid i lavori del Parlament sono visti ovviamente con sospetto e ostilità. Basti pensare che il governo di Rajoy e il Tribunale Costituzionale (Tc) nel corso dell’ultimo anno hanno respinto come illegittime tutta una serie di misure approvate dal Parlament catalano: non solo il documento che sancisce l’iter per l’indipendenza, ma anche la legge antisfratti, la legge contro le corride dei tori e alcuni articoli di legge molto all’avanguardia sull’uguaglianza tra uomini e donne.
Non c’è da stupirsi quindi se in Spagna ultimamente si sente spesso parlare dei pericoli di “vittimizzazione” della Catalogna, “giudizializzazione” della politica (o politicizzazione dei tribunali) e del rischio di prolungare il conflitto tra Stato e Catalogna attraverso il ricorso ai tribunali, come il Tribunale Costituzionale.
Il colmo è stato raggiunto lunedì 24 ottobre, quando è stato ammesso dal Tribunale superiore di giustizia della Catalogna (Tsjc) il procedimento contro Carme Forcadell, la presidente del Parlament, per disobbedienza e prevaricazione. La colpa della Forcadell sarebbe stata proprio quella di aver autorizzato i lavori del Parlament nel giorno in cui è stato approvato il documento programmatico che segna la via dell’indipendenza.
La pena prevista in caso di condanna non è il carcere, ma l’inabilitazione dal suo mandato politico. Forcadell non è l’unico membro della classe politica catalana sotto processo: insieme a lei c’è, per esempio, anche Artur Mas, ex presidente del governo catalano. Accusato anch’egli di disobbedienza e prevaricazione per aver celebrato la “consulta” popolare del 9 novembre 2014: una specie di referendum, ma non vincolante.
La novità del referendum del 2017 è che quest’ultimo dovrebbe avere, invece, un valore vincolante, anche se non si capisce bene come, visto che il governo di Madrid non pare minimamente intenzionato ad accettare la sua validità.
Lo scorso 26 ottobre la Forcadell, a un anno esatto dal suo mandato, e all’indomani della notizia del procedimento a suo carico, ha sfidato apertamente Madrid dichiarando di escludere una sua possibile inabilitazione. Forte del consenso popolare, la sua strategia è quella di portare il più possibile alla luce le contraddizioni dei suoi avversari.
“Chi nomina o destituisce il presidente di un parlamento sono i suoi deputati, non un tribunale. Sarebbe un precedente molto grave in uno stato di diritto. La Spagna, se vuole difendere la sua immagine democratica internazionale, non può correre il rischio di creare un simile scandalo”, ha detto.
Dovremo attendere i prossimi mesi per vedere come si evolverà la situazione. Nel frattempo l’iter per il referendum va avanti, in tempi in cui la classe politica europea ricorre sempre più a questo strumento con risultati – a volte – molto destabilizzanti per la vita dei paesi.
*A cura di Cecilia Vergnano