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    Carceri Spa

    Come le prigioni private negli Stati Uniti si arricchiscono grazie al sostegno della politica

    Di Giovanna Carnevale
    Pubblicato il 30 Lug. 2013 alle 12:37 Aggiornato il 12 Set. 2019 alle 11:43

    Una porta girevole collega gli uffici amministrativi dell’industria carceraria privata e le sedi della politica statunitense. A muoverla sono sempre gli stessi uomini, lobbisti pagati per convincere i politici ad abbracciare la causa della privatizzazione delle prigioni o, meglio ancora, deputati e funzionari governativi che hanno rapporti clientelari con chi gestisce carceri private. Il loro interesse è massimizzare i profitti aumentando il più possibile il numero dei detenuti.

    Prima di fondare insieme al banchiere Robert Crants la Correction Corporation of America (Cca), Tom Beasley era il presidente del partito repubblicano in Tennessee. La sua azienda penitenziaria nasce nel 1983 grazie ai finanziamenti della società a capitale di rischio Massey Burch, la stessa che ha supportato anche la nota catena di fast food Kfc. Oggi è la seconda azienda di carceri più grande degli Stati Uniti, gestisce più di 65 centri di detenzione e correzione in 19 stati americani, e solo nel 2012 ha guadagnato oltre 1,3 miliardi di euro.

    A dimostrare quanto sia importante per la Cca avere dalla sua parte la legge americana bastano alcuni numeri. Dal 2002 al 2012 ha speso 13 milioni di euro per fare lobbying sulle due camere del Congresso, sul Dipartimento per la sicurezza interna, sull’Ufficio di gestione e bilancio e su molti altri enti federali.

    D’altra parte non sempre è necessario assoldare lobbisti, perché gli esponenti politici stessi possono trovarsi coinvolti nella gestione delle prigioni. Ad esempio Michael Quinlan, ex direttore dell’Ufficio federale delle carceri e vice presidente esecutivo della Cca dal 1999, può influenzare molto più direttamente le scelte politiche nell’interesse del carcere in cui lavora.

    “I lobbisti lavorano per convincere i funzionari governativi a modificare una legge in favore della corporazione che rappresentano, o per fare in modo che non cambino quelle già favorevoli” spiega Frank Smith, attivista statunitense che lotta da 15 anni contro la privatizzazione delle carceri. “Spesso, inoltre, raccolgono fondi per sostenere quei candidati e politici in carica che mirano a influenzare. E non è raro che in passato abbiano lavorato per quelle organizzazioni o partiti politici sulle quali hanno poi fatto lobbying.”

    È questo il fenomeno della revolving door, cioè di quella porta girevole il cui inganno sta nel credere che si possa decidere da che parte farla girare, e per mano di chi. All’interno di questo centro decisionale informale, la legale attività di lobbying si unisce alla corruzione vera e propria. L’intreccio tra interesse privato e interesse nazionale, inoltre, crea uno spazio alternativo e spesso più efficiente in cui stabilire le linee della politica giudiziaria e di difesa americana.

    Forse è un caso che dal 1990 al 2009 il numero delle persone nelle carceri private negli Stati Uniti sia aumentato del 1.600 per cento; ma che sia nel loro interesse avere più condannati è indubbio. “La domanda per le nostre strutture e i nostri servizi potrebbe essere influenzata negativamente dalla clemenza nelle condanne o dalle norme sulla libertà vigilata” si legge nel rapporto del 2010 della Correction Corporation of America.

    L’unico credo di chi gestisce una prigione privata è che più alto è il numero dei detenuti, maggiori sono gli introiti. Una legge sull’immigrazione più restrittiva, o l’inasprimento della pena per qualsiasi reato si traduce, per un imprenditore delle carceri, in un profitto facile e di lunga durata.

    Tutto segue una logica aziendale nel settore delle prigioni private. Come le grandi società commerciali, anche le grandi strutture carcerarie sono quotate in borsa. E come spesso avviene, inoltre, la concorrenza scompare all’ombra delle aziende più grandi. Il mercato statunitense delle carceri private è dominato interamente dalla Correction Corporation of America e dalla Geo Group, che ha acquistato le concorrenti Correctional Services Corporation e Cornell Companies rispettivamente nel 2005 e nel 2010.

    Indiscussa regina di questo settore, la Geo Group è stata fondata nel 1954 da George Wackenhut, un ex funzionario dell’Fbi, e possiede carceri negli Stati Uniti, in Australia, nel Regno Unito e in Sud Africa. Uno dei suoi principali accessi al mondo della politica è rappresentato da Stacia Hylton, contemporaneamente membro del Dipartimento di Giustizia federale e capo di un’agenzia che da lungo tempo stipula contratti con la Geo Group.

    Stando a una lettera della Federazione Americana dei dipendenti pubblici al senatore Patrick Leahy, durante il mandato governativo di Stacia Hylton, la Geo ha ottenuto contratti dal valore totale di 60 milioni di euro in un anno. Poco prima di andare in pensione, Hylton ha fondato una società di consulenza privata, il cui unico cliente era appunto la Geo. Da questa avrebbe accettato 85 mila euro i subito dopo aver lasciato il suo lavoro in veste pubblica.

    Casi di questo tipo non sono affatto isolati, anzi, è proprio grazie a essi che le aziende penitenziarie riescono ad ottenere i contratti per detenere i condannati, sia a livello statale che federale.

    I sostenitori della privatizzazione delle carceri sostengono che la gestione privata faccia risparmiare le casse statali. Non prendono in considerazione, però, che come afferma Frank Smith, “piuttosto che accettare detenuti con esigenze equivalenti, quelli più malati o più pericolosi sono collocati nelle strutture pubbliche, in modo che i costi più alti della carcerazione non ricadano sul settore privato”.

    E non si preoccupano neanche del fatto che, grazie al permesso ottenuto dall’Internal Revenue Service, l’industria penitenziaria privata può ora assumere la forma di un trust, finora riservata ai fondi di partecipazione immobiliare, ed essere quindi esente dal pagamento delle tasse. La Cca, che si è convertita a questa nuova struttura economica all’inizio del 2013, si aspetta di risparmiare per quest’anno circa 53 milioni di euro di tasse.

    Una volta intuito il senso di una porta girevole, farla scorrere diventa ogni volta più semplice. Gira attorno al profitto, ormai è chiaro, e lo fa grazie a una politica stretta di mano.

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