Questo articolo fa parte dello speciale di TPI “Il sogno canadese dei rifugiati siriani”, che spiega come funziona il sistema di accoglienza in Canada, attraverso le testimonianze di rifugiati, cittadini canadesi e accademici.
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Quando Maggi ha deciso di partecipare al programma di sponsorizzazione di rifugiati siriani, aveva due tipi di paure. “E se non ci sono simpatici?”, pensava. “O se noi non siamo simpatici a loro?“. Poi si è detta che questo tipo di iniziativa si prende perché c’è gente che è in difficoltà e non per farsi nuovi amici.
La seconda paura era dovuta al fatto che il gruppo di cui fa parte è eterogeneo. “Tra noi ci sono alcune coppie lesbo e alcune persone di razze differenti. Su 12 persone solo quattro hanno origini canadesi. Io che sono di Toronto sono l’eccezione”.
“E se fossero omofobi o razzisti?”, si era chiesta. “Quel che sarà sarà. In realtà no, non sono razzisti e non sono nemmeno sicura che abbiano capito che nel gruppo ci sono alcune lesbiche, o che la cosa gli interessi”.
A Maggi piace aiutare le persone e spiega che lo ha fatto perché, semplicemente, poteva farlo.
Il suo gruppo partecipa al programma di sponsorizzazione mista tra privati e governo previsto dalla legge canadese. I privati offrono un finanziamento iniziale e pagano metà dei finanziamenti mensili. L’altra metà la paga lo stato, ma lei e gli altri sponsor si occupano anche di tutto quello che riguarda l’insediamento e l’integrazione dei nuovi arrivati. Per i primi rifugiati, arrivati alla fine del 2015, il tredicesimo mese è già arrivato.
“Di certo è un momento cruciale, ma nessuno dei privati che aiutano i rifugiati gli dirà addio da un momento all’altro”, dice Maggi. “All’inizio del tredicesimo mese loro dovrebbero diventare economicamente indipendenti, ma l’aiuto per l’integrazione resta. Se non sono in grado di provvedere alla loro sussistenza c’è il sussidio sociale”.
“A questo proposito uno dei temi che ci siamo trovati ad affrontare con la famiglia che aiutiamo è quello dell’affitto. Quale somma avremmo dovuto stanziare? Noi avremmo anche potuto stabilire una cifra più alta, ma al tredicesimo mese loro non avrebbero potuto permetterselo. Gli affitti a Toronto sono molto cari, come sarebbero andati avanti? Quindi abbiamo cercato un compromesso”.
Per comunicare con la famiglia siriana che ospita, il gruppo fa riferimento a volontari che si sono offerti per la traduzione, a volte anche a telefono o per email. Altrimenti comunicano a gesti. “Non sempre ci capiamo, a volte si fa confusione, ma la cosa ci mette di buonumore”, racconta Maggi.
Durante la nostra videochiamata, qualcuno suona alla porta. È un’altra donna che fa parte del gruppo di sponsor. Maggi mi spiega che è passata da lei a prendere degli abiti pesanti perché il giorno precedente c’è stata una forte nevicata a Toronto e si vogliono assicurare che la famiglia siriana abbia tutto ciò che occorre.
La sponsorizzazione ha tenuto Maggi molto impegnata, soprattutto nei primi tempi. C’è voluta l’intera mattinata per registrare i due bambini della famiglia a scuola e serve l’interprete anche per andare dal dentista.
“C’è qualcuno che dice che bisognerebbe pensare prima ai cittadini canadesi”, dice Maggi. “Ma il Canada è un paese di immigrati. In più nel nostro passato ci sono alcuni brutti episodi, per esempio riguardo al trattamento degli indigeni o al fatto che non abbiamo accolto gli ebrei durante la seconda guerra mondiale. Da questo abbiamo imparato che tutti dobbiamo dividere il poco che abbiamo, altrimenti siamo persi. Siamo tutti sulla stessa barca”.
“Non pescare per me, insegnami come pescare”
La sponsorizzazione non è il solo modo per aiutare i rifugiati siriani. Esiste una rete di organizzazioni che li sostiene dal loro arrivo. Una di queste ong è Syrian active volunteers (Sav). Il motto di Sam Jisri, fondatore e direttore dell’organizzazione, sembra un proverbio cinese, ma forse ha origini siriane come lui.
“Non pescare per me, insegnami come pescare”, ripete al telefono, quando TPI lo chiama alle 4 di notte italiane, al suo rientro da un’assemblea del parlamento di Ottawa. “Perché se peschi per me mi nutri una volta sola, se mi insegni mangerò ogni giorno”.
Jisri ha 39 anni e vive in Canada da quando ne aveva 14. Lavorava come insegnante di matematica, ma cinque anni fa, quando è iniziata la guerra in Siria, è andato in Turchia, dove ha lavorato come operatore umanitario nei campi profughi tra il 2012 e il 2013. “Ho visto le difficoltà dei profughi siriani, le loro sofferenze, li ho visti morire”, racconta.
Poi è tornato in Canada ed era felice quando ha sentito dell’arrivo dei nuovi siriani nel paese dopo l’elezione di Justin Trudeau come primo ministro a novembre 2015. “Ho pensato che non dovevo più andare al confine, che potevo aiutarli da qui”.
La sua associazione ha cominciato ad aiutare i rifugiati siriani che arrivavano attraverso il programma governativo negli hotel. Poi ha affiancato i funzionari del governo e le agenzie umanitarie quando ricevevano i “nuovi arrivati” all’aeroporto. “Ora siamo così conosciuti che abbiamo centinaia di volontari e aiutiamo migliaia di rifugiati”, racconta orgoglioso Sam.
Chi arriva ha prima di tutto bisogno di informazioni. L’organizzazione si assicura che abbiano quello che serve loro: cibo, lenzuola, seggiolini per bambini, ad esempio. Per fornire il supporto nel modo più veloce possibile Sav utilizza gruppi Whatsapp, divisi per hotel e per area. Ogni gruppo ha circa 150 membri e l’associazione comunica quando venire a prendere cibo o vestiario, dando una determinata fascia oraria.
Inoltre, ogni settimana i volontari di Sav caricano video tutorial su Youtube, dove forniscono in arabo informazioni sull’integrazione in Canada: come prendere la patente, dove fare la spesa, dove mandare i bambini a scuola, come imparare inglese. “Youtube è molto veloce, quindi noi siamo più veloci del governo nel dare queste informazioni”, dice Jisri. “In un minuto un video può raggiungere anche 4mila persone tramite Whatsapp”.
L’organizzazione incoraggia tutti i siriani a trovare lavoro. “Molti sono occupati nei ristoranti, altri lavorano come autisti di Uber, altri nei lavaggi auto o come assistenti meccanici”, spiega Jisri.
(Sam Jisri e altri volontari di SAV. Foto Facebook)