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    Il campo profughi nel cuore dell’Europa che nessuno vuole

    Laura Stahnke ha realizzato per TPI un reportage da Calais, città francese dove i profughi sperano di raggiungere il Regno Unito

    Di Laura Stahnke
    Pubblicato il 24 Ott. 2016 alle 09:10 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 22:52

    La prima cosa che colpisce di Calais è il fango. Fango
    ovunque, intervallato da pozze d’acqua. Chi abita nel campo da più tempo sa
    quali sono i sentieri che non nascondono buche in cui sprofondare fin sopra
    alle caviglie, ma chiunque viva nella Giungla si riconosce comunque dalle
    scarpe perennemente sporche che lasciano impronte bagnate ad ogni passo. 

    Sopra questa distesa di fango si ergono migliaia di tende.
    Il colore predominante per qualche ragione è il blu. Sono tende da campeggio:
    si riconoscono molte Quechua, tra le più popolari tra i campeggiatori fai-da-te di tutta Europa, ma anche strutture di tela cerata e assi di fortuna.
    Qualche struttura di legno compensato e poche roulotte spiccano tra la
    moltitudine di tende.

    Al mattino presto inizia la prima tra le file che
    contraddistinguono la vita nel campo: quella per riempire le taniche d’acqua.
    Al momento più di 6000 migranti vivono nella campo profughi di Calais diventato
    noto come the Jungle, la Giungla, e
    tutti si riforniscono di acqua presso le poche bocchette sparse all’interno del
    campo. Acqua potabile, lampioni illuminati di notte e reticolati di filo
    spinato a delimitare i confini del campo sono gli unici investimenti realizzati
    da parte del governo francese all’interno del campo profughi che ormai da anni
    si erge nel cuore dell’Europa. La popolazione del campo è fluida. C’è chi vi abita da
    alcuni mesi, chi da pochi giorni. Fino all’estate scorsa si stimava che la
    popolazione della Giungla si aggirasse intorno alle 3000 persone, ma nel giro
    di pochi mesi il numero degli abitanti del campo è raddoppiato. Nessuno arriva
    con l’idea di restare, e tutti hanno la stessa meta in mente: la Gran Bretagna.

    Calais è la città francese più vicina al Canale della
    Manica, che segna il confine con l’Inghilterra. Persone in arrivo da Eritrea,
    Sudan, Afghanistan, Siria, Iraq, Iran, Kurdistan, Pakistan si ritrovano qui con
    l’obiettivo di attraversare il confine ed arrivare a quella che molti vedono
    come la meta finale del loro viaggio. Per chi il Caso ha dotato di un passaporto europeo
    attraversare la frontiera tra i due paesi è una questione di pochi minuti. Per
    gli abitanti del campo servono mesi di tentativi, nascondendosi nel retro di
    camion, saltando su treni in corsa, o cercando di infilarsi sui traghetti che
    più volte al giorno si spostano tra Calais e Dover, in Inghilterra. 
    The Jungle è
    quindi il campo dell’attesa: tutti aspettano la propria occasione di riuscire
    ad attraversare la frontiera senza essere scoperti dalla polizia di dogana.

    Il campo è diviso in diverse comunità nazionali: kurda,
    afghana, eritrea, sudanese, irachena. È difficile che gli appartenenti alle
    diverse comunità si mescolino tra loro, anche a causa di barriere linguistiche. Nonostante ciò, la Giungla sta diventando uno dei villaggi
    più cosmopoliti d’Europa. A pochi passi dalla chiesa Eritrea si trova ad
    esempio il Caffè Kabul, centro della comunità afgana. Voltato l’angolo vi è
    invece il Restò du Monde, dove è possibile comprare il pane
    nan tipico dell’Asia Centrale e
    Meridionale.

    Chi era commerciante o ristoratore in patria ha portato con
    sé il proprio spirito imprenditoriale, dando vita a business che sorgono
    all’interno di tende e strutture di fortuna. Oltre ad offrire in vendita pasti
    caldi o beni di prima necessità, questi luoghi spesso si trasformano in
    catalizzatori per le comunità di appartenenza. Televisioni appesi alle pareti
    mostrano video musicali in lingue che non so riconoscere, mentre ciabatte e multiple
    per la corrente sono costantemente occupate da cellulari in carica.

    Oltre a questi ristoranti, nel campo vi sono varie cucine
    comunitarie che offrono pasti gratuiti a centinaia di persone ogni giorno.
    Donazioni di cibo arrivano costantemente da singoli individui di diversi Paesi,
    primo fra tutti l’Inghilterra. 
    In molti qui si sentono responsabili per la cortina di ferro
    che il governo di Cameron ha letteralmente erto al di fuori dei propri confini
    per tenere lontani gli abitanti della Giungla dalle coste britanniche. Per
    molti inglesi il modo per manifestare dissenso con le scelte politiche del
    proprio Paese è quindi mandare donazioni alle organizzazioni di volontari che
    operano a Calais, o spendere il loro tempo libero per aiutare come possono.

    Oltre alle cucine comunitarie, vi sono due magazzini dove le
    donazioni di vario genere vengono smistate – impermeabili da uomo taglia S a
    sinistra, taglia M al centro, L a destra. Stivali impermeabili numero 41 in
    basso a destra. E così via. Distribuzioni di kit di prima accoglienza avvengono
    regolarmente. Volontari e abitanti del campo lavorano fianco a fianco
    nelle cucine comunitarie, nella biblioteca che raccoglie libri in inglese,
    arabo, francese e urdu, e in un teatro sorto nel centro della Giungla dove di
    sera la musica riunisce abitanti delle diverse comunità e volontari: tutti
    ballano allo stesso ritmo, in un’atmosfera che ha poco di diverso rispetto a
    quella di discoteche e
    concert halls
    sparse in tutta Europa. 
    Questo sistema però conta solo su volontari e su singole
    donazioni. Istituzioni pubbliche né francesi né inglesi collaborano a fornire
    beni di prima necessità o cibo a chi vive nel campo profughi al confine tra i
    due Paesi. A parte qualche rara eccezione, grandi assenti sono inoltre le
    maggiori ONG internazionali e le Nazioni Unite, altrimenti impegnate ovunque
    nel mondo in contesti simili. In molti si interrogano su cosa succederà quando
    il tempo, l’attenzione e la disponibilità di volontari e donatori finiranno.


    Ciò in cui i governi britannici e francesi si stanno
    prodigando sono sistemi per mantenere gli abitanti della Giungla lontani dalla
    Gran Bretagna. L’Inghilterra ha infatti investito
    15
    milioni di sterline
    per erigere alte palizzate sormontate da filo spinato
    attorno alla Giungla e al porto di Calais. Allo stesso tempo, ha fatto forti
    pressioni sul governo francese affinché indurisca i controlli alle proprie
    frontiere. 
    Il risultato è che nella Giungla
    la presenza dello stato si percepisce solo nel momento in cui ci si allontana
    dal campo profughi. Poliziotti in tenuta antisommossa pattugliano le strade che
    portano alla stazione e all’Eurotunnel, mentre camionette della
    gendarmerie percorrono instancabili le
    stesse strade, dando l’impressione di essere in un contesto bellico.

    Calais, più che rappresentare una
    minaccia reale per la Gran Bretagna, è diventato il simbolo della chiusura dei
    confini britannici ai migranti extra europei. I numeri lo dimostrano: ad agosto
    2015 erano registrati più
    di 600.000 italiani
    che vivevano in Gran Bretagna per studio e lavoro.
    Cento volte il numero degli abitanti della Giungla. I cittadini dell’intera UE
    che risiedono in Gran Bretagna sono invece
    più di 3 milioni.
    500 volte il totale dei profughi bloccati a Calais. Di
    fronte a questi numeri, credere alle previsioni apocalittiche di Cameron
    secondo il quale gli abitanti della Giungla sono un’orda di migranti pronti ad
    invadere il Regno Unito risulta quindi difficile. I profughi bloccati a Calais sono
    però diventati il capro espiatorio ricettore dei discorsi nazionalisti
    britannici; la Giungla e il confine Calais-Dover sono ora il display della
    forza e dell’impegno britannico nel mantenere quanti più migranti possibili
    fuori dai propri confini.

    Organizzazioni locali sia inglesi
    che francesi offrono aiuto e consulenza legale a chi abita nella Giungla. In
    molti hanno familiari che già vivono in Inghilterra, e legalmente hanno diritto
    a un visto per riunificazione famigliare. Ironia della sorte, potranno fare
    domanda ed ottenere il visto solo una volta sul suolo britannico. Nel frattempo, anche solo
    pubblicare dalla Giungla una foto su Facebook in cui il viso sia ben
    riconoscibile può diventare pericoloso per chi farà domanda d’asilo in Gran
    Bretagna. Con un’applicazione quasi inverosimile del trattato di Dublino,
    queste foto possono essere usate dalle autorità britanniche per dimostrare che
    l’Inghilterra non è il primo Paese europeo in cui il richiedente asilo abbia
    soggiornato, e possono quindi servire come base per una deportazione verso la
    Francia.


    Nonostante queste pressioni e
    questo clima internazionale che fa sentire migranti e rifugiati male accetti
    ovunque mettano piede in Europa, molti di loro sono pieni di sogni e di
    speranze. Passano le giornate in gruppo, e si sente ridere spesso. E in molti
    casi, a chi vive nel campo piace raccontarsi.

    Erdem vive nella Giungla da
    qualche mese. Ha 24 anni, viene dal Kurdistan iracheno, ed è sempre in cerca
    della sua occasione, ‘my chance’, per
    arrivare in Inghilterra. La polizia di frontiera l’ha già trovato nascosto su
    camion o treni otto volte, e per otto volte l’hanno tirato giù, picchiato e
    scaricato una bomboletta lacrimogena sugli occhi. Con gli occhi fuori uso non
    potrà cercare di saltare su camion o altri mezzi per attraversare la frontiera,
    almeno per un po’. In cinque di queste occasioni
    volte Erdem è stato invece portato dalla polizia francese al confine con la
    Spagna, a centinaia di kilometri da Calais e la Manica, e scaricato qui sul
    bordo di una strada. Un invito esplicito da parte del governo a lasciare il
    suolo francese e incamminarsi verso la Spagna. Per 5 volte Erdem è tornato a
    Calais.

    I tentativi per arrivare in
    Inghilterra avvengono di notte. Di giorno, Erdem lavora all’Ashram Kitchen, una
    delle cucine comunitarie che due volte al giorno prepara un pasto caldo per 500
    persone. Il fratello di Erdem ha un ristorante in Kurdistan, e lui è in grado
    di maneggiare con disinvoltura pentole gigantesche e cucinare per centinaia di
    persone, con ottimi risultati. Erdem si veste di nero e ha una
    barba corta e curata, una cintura con la fibbia spostata su un lato e scarpe
    che ricordano le All Star. Ogni tanto si fuma una sigaretta rollata col tabacco
    West Virginia che un volontario gli ha regalato. Per le strade di Londra si
    confonderà con altri ragazzi della sua età vestiti con lo stesso stile. 
    Ogni tanto si siede col cellulare
    in mano e l’aria assente. Ha 5 fratelli e 4 sorelle, e continua a guardare le
    stesse foto di famigliari e amici salvate sul suo telefono, facendole vedere a
    chiunque si sieda con lui. In Kurdistan era un militare, un
    freedom fighter impegnato nella lotta
    contro l’ISIS. Quest’ultimi però hanno conquistato la zona in cui operava, e
    lui è dovuto scappare, lasciandosi tutto indietro. Teme che non potrà rivedere
    mai più la propria famiglia. 
    “La Giungla è un posto orribile,
    ma c’è vita,” racconta. “In Kurdistan ora non c’è più vita”.


    Saman è un suo amico. Anche lui
    di giorno lavora all’Ashram Kitchen, mettendosi dietro a pentoloni fumanti e
    distribuendo stufato di verdure o riso alle centinaia di persone che ogni
    giorno entrano nel tendone che ospita la cucina. 
    Il padre di Saman più di 10 anni
    fa lasciò il Kurdistan iracheno e arrivò in Inghilterra dall’Iran. Sul
    cellulare Saman ha foto del padre che lo ritraggono mentre lavora in un KFC,
    una catena di fast food. Dal 2007 però il padre ha smesso di dare ogni tipo di
    notizie alla famiglia rimasta in Kurdistan. Nessuno sa che fine abbia fatto. 

    Saman ora ha 24 anni. Suo
    fratello è stato ucciso dall’ISIS, o Daesh, come la chiamano in molti nella
    Giungla. Sua madre e un altro fratello sono ancora in Kurdistan, ma non sa se
    siano vivi o morti. Quando la sua città è stata invasa dalle forze dello Stato
    Islamico, Saman è scappato. 
    Ha attraversato la Turchia, è
    arrivato in Grecia via mare e da lì ha iniziato il viaggio che accomuna le
    centinaia di migliaia di persone entrate in Europa nel corso del 2015. Di tutti
    i paesi attraversati, dice che la Bulgaria è stato il peggiore: qui la polizia
    l’ha bloccato, picchiato e derubato di tutto ciò che aveva con sè.
     Saman vuole arrivare in
    Inghilterra per trovare suo padre. È sicuro che non sia morto. Ogni tanto prova
    a fare ipotesi su dove sia finito. Una volta dice: “magari ha trovato una
    ragazza, si è sposato e dimenticato di noi”. Poi alza gli occhi al cielo, dice
    sorryfather”, quasi come temesse che
    il padre lo possa sentire e offendersi per l’ipotesi avanzata.

    Saman non capisce come mai
    l’Inghilterra non possa accogliere le 6000 persone che vivono nella Giungla.
    “Il Kurdistan è un paese piccolo, siamo solo 5 milioni,” spiega. “Quando l’ISIS
    è iniziata a diventare una minaccia in Iraq, più di 5 milioni di iracheni si
    sono rifugiati nelle nostre città. Come è possibile che il Kurdistan riesca ad
    ospitare 5 milioni di persone, e la Gran Bretagna non possa farne entrare
    6000?”. Saman è stato bloccato più volte
    dalla polizia francese. Conferma ciò che Erdem ha raccontato: botte e spray
    lacrimogeno sono nella prassi comune di gestione migranti per le forze
    dell’ordine locali. Anche Saman è stato portato lontano da Calais: è stato
    infatti costretto su un aereo che lo ha portato a Toulouse, città nella Francia
    meridionale vicino al confine con la Spagna. A centinaia di kilometri da Calais
    è stato interrogato e un giudice l’ha infine rilasciato. Ora va in giro con un
    documento di 30 pagine piegato in tasca, in cui si stabiliscono i punti di un
    processo che lui stesso non capisce come possa essersi svolto così lontano da
    dove era stato catturato. 
    Finito il processo, Saman è
    tornato a Calais. Proverà ancora ad arrivare in Inghilterra, dove è sicuro che
    troverà suo padre. Nel frattempo passa le giornate all’Ashram Kitchen, tra
    volontari e altri abitanti della Giungla.


    ‘L’Italiano’ invece è afghano.
    Nel campo viene chiamato così perché ha passato diversi mesi in Italia, dove
    gli è stato riconosciuta protezione umanitaria temporanea. Racconta che ha
    lasciato l’Afghanistan quando il suo villaggio è stato distrutto dai talebani. 
    ‘L’Italia è buona’, mi dice in
    italiano, ‘ma non c’è lavoro. In Afghanistan ero un meccanico, ma in Italia non
    sono riuscito a trovare niente che mi pagasse abbastanza per sopravvivere.
    Proverò in Inghilterra’. Sarà difficile per lui. Il trattato di Dublino
    stabilisce che chi sia stato identificato in un paese europeo non può spostarsi
    verso altri stati dell’Unione, ma deve restare nel paese in cui gli hanno preso
    le impronte digitali per la prima volta. Lui lo sa, ma ci proverà lo stesso.

    Non è l’unico che ha già un
    permesso di soggiorno italiano. In molti fanno mostra delle tessere
    plastificate rilasciate da questure sparse sul territorio italiano, e tutti
    confermano la stessa versione dei fatti: in Italia non c’è lavoro, meglio
    tentare altrove. Scherzando l’Italiano dà un’altra
    motivazione al suo voler lasciare il Bel Paese: ‘In Italia non ho trovato
    nessuna ragazza che mi volesse sposare! Sono davvero così brutto?’


    Bawan ha sei anni, ed è kurdo
    anche lui. Porta degli stivali di gomma in cui i suoi piedi devono ancora
    crescere e che lo fanno camminare come una paperina. Ha le guance piene che
    attirano baci e un sorriso bellissimo. Tutte le sere cena all’Ashram Kitchen
    con suo padre, che lo segue con uno sguardo preoccupato e innamorato allo
    stesso tempo. Si siedono sempre nello stesso angolo e mangiano in silenzio. 
    Non parlano inglese, maBawan è
    contento di interagire con gli altri. Il padre una sera lo esorta ad offrire ai
    volontari le caramelle che qualcuno gli ha regalato, e lui lo fa con un
    sorriso.

    Come molti degli abitanti della
    Giungla, il padre passa molto tempo a scorrere foto sul cellulare. Si sofferma
    spesso su quella della moglie: una ragazza con gli occhi seri nonostante il
    sorriso, e un hijab verde che le
    incornicia il volto. È stata uccisa da una bomba. Dopo la sua morte, Bawan e il
    padre sono partiti.

    Abraham ha 25 anni ed è eritreo.
    È arrivato con suo cugino e passa il suo tempo nella biblioteca cheoccupa una
    delle tende della Giungla. Legge di giorno, e cerca di attraversare il confine
    di notte. Anche lui racconta di spray lacrimogeno sparato negli occhi le volte
    che è stato catturato dalla polizia di frontiera. Quando ciò accade, non riesce
    più a leggere il giorno dopo. Abraham è uno di quelli che sono
    arrivati in Europa seguendo la rotta ‘classica’ attraverso il Sahara e il
    Mediterraneo, sbarcando a Lampedusa. 

    Del deserto e della traversata in
    mare non dice niente, ma racconta che è stato per qualche settimana in un campo
    di accoglienza in Calabria. Una volta lasciata la Calabria, ha attraversato
    l’Italia ed è arrivato in Francia. Dice che Roma è bellissima, ma si è
    innamorato di Bologna. Ha provato a restare, ma anche lui è stato spinto fuori
    dall’Italia dalla mancanza di lavoro. 
    Sa qualche parola di italiano.
    Dice che suo nonno ai tempi del fascismo e delle colonie sapeva parlarlo molto
    bene. Lui sa contare fino a dieci, dire come si chiama e il nome di qualche
    professione. In Eritrea faceva l’autista d’autobus. 
    È scappato da una dittatura
    militare che, racconta, in Eritrea rende la vita impossibile a chiunque.


    Arash è iraniano. Ha fatto
    l’università a Roma dove ha studiato psicologia e parla italiano benissimo.
    Racconta quello che si ricorda di Roma: la pizza al taglio per strada, le aule
    della Sapienza, gli autobus arancioni. Parla di un bar vicino al Pantheon che
    faceva un caffè “spettacolare”. 
    Finita l’università è tornato in
    Iran, dove ha insegnato a sua volta e ha pubblicato un libro. A causa di questo
    libro ha dovuto lasciare il paese: le idee espresse non sono state ben accette
    dal regime.

    Arash è arrivato in Europa con un
    visto Schenghen, ma vuole trasferirsi in Inghilterra, dove abita suo fratello.
    Dice che vuole vivere in un paese in cui possa sentirsi libero di scrivere
    quello che pensa senza sentirsi in pericolo.

    Tra un pasto e l’altro, quando
    non è ancora il momento di iniziare i preparativi per la cena, l’Ashram Kitchen
    si svuota. La gente avanza lentamente tra i sentieri della Giungla. In molti
    passano il tempo chiacchierando fuori da qualche tenda o dentro uno dei
    ristoranti improvvisati, ascoltando musica, ricaricando il cellulare e
    scambiandosi le ultime notizie della vita nel campo. Altri vanno in chiesa o in
    moschea a pregare.

    Spesso si sente musica levarsi da
    qualche tenda. C’è chi canta mentre un gruppo di amici nella comunità sudanese
    gioca a carte. Girato l’angolo, un gruppo di
    ragazzi della comunità irachena sta ballando, scandendo su un secchio
    rovesciato il ritmo di una canzone che arriva da lontano.

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