Berlino est, 9 novembre 1989. La cosa divertente, con il senno del poi, è che Riccardo Ehrmann stava per arrivare tardi all’appuntamento con la storia. Se non altro perché non poteva nemmeno ipotizzare che il destino lo attendesse così impazientemente.
Non lo immaginava, il pomeriggio del 9 novembre del 1989, mentre cercava affannato un parcheggio per la sua piccola Fiat (era preoccupato per il fatto che la conferenza stampa a cui stava andando fosse già iniziata), che solo pochi minuti dopo, proprio lui, avrebbe fatto la domanda che determinò, quel giorno, la caduta del muro di Berlino.
Anche per questo, ancora oggi molti – soprattutto in Germania – faticano ad accettare il fatto che “il Secolo breve” si sia chiuso per un incrocio di fattori casuali e ineluttabili: il vento della rabbia che spirava ormai incessante da giorni nelle piazze e nei Palazzi della capitale tedesca, gli strappi di Gorbaciov, e gli effetti tellurici della sua perestrojka sui sistemi di potere ormai decrepiti del Patto di Varsavia.
Ma poi c’è una Trabant che lascia libero uno spazio nel parcheggio del ministero degli Esteri, mentre l’uomo che la guida saluta con simpatia un giornalista italiano a a cui sta cedendo il posto. E quindi un foglietto di carta scritto male a matita nelle mani di un politico che decide.
E poi un equivoco, poi la telefonata di “un sottomarino” nell’ufficio di corrispondenza della prima agenzia di informazione italiana a Berlino. E quindi – addirittura – un banale problema di opzioni che per puro caso porta Riccardo a Berlino.
E anche – soprattutto – quel che deve accadere accade per via della risposta improvvisata di un leader della Germania dell’est alla domanda di un giornalista italiano. Proprio alla aua domanda: quella dell’uomo che non trovava posto nel parcheggio del ministero.
Quel giorno Riccardo Ehrmann aveva sessant’anni. Oggi ne ha novanta, ma la sua memoria pare incredibilmente inossidabile. Lo era senza dubbio il giorno in cui l’avevo intervistato io: Riccardo aveva allora ottant’anni.
Si era trasferito in Spagna, il paese di sua moglie Margarita, dopo aver girato mezzo mondo per il suo lavoro da giornalista e da corrispondente. Il suo destino – come scopriremo presto – si era incrociato almeno tre volte con quello della storia tedesca, sempre nella congiuntura del dramma.
Ed era stato così anche dopo aver rischiato di finire nei camini di Auschwitz da bambino, e dopo che, seduto sui gradini sotto il tavolo di una sala convegni in quell’indimenticabile 1989, aveva incalzato fuori campo il portavoce del governo Gunther Schabowski fino a fargli dire ciò che non era stato preventivato né previsto.
È a questo punto che un foglietto di carta con un appunto ambiguo, per giunta maneggiato improvvidamente, aveva aggiunto il suo valore aggiunto alla fatalità che si stava per compiere.
Per anni – malgrado esista una registrazione televisiva che documenta quel che accadde quel giorno – ben cinque diversi giornalisti tedeschi, cavillando sulle inquadrature, hanno rivendicato per se stessi il merito della parte decisiva di quel botta e risposta, cercando di appropriarsi di quella voce fuori campo e lontana dal microfono che avvia le danze nel grande ballo della Storia.
Vanitas vanitatis. Eppure, incurante di questa ridicola contesa, anche mentre si celebrava il festival della vanagloria altrui, Riccardo era rimasto in silenzio ed aveva mantenuto segreto, per due decenni, il retroscena che quella mattina lo aveva portato sulla pista giusta.
Lo aveva fatto perché si sentiva frenato da un vincolo deontologico, un obbligo dettato dal suo senso dell’onore. Non voleva rivelare l’identità della fonte che lo aveva imbeccato quella mattina. Si trattava di un dirigente della Sed che lo aveva messo sulle tracce della grande Storia.
Un uomo che aveva rischiato tutto per lui, e che – dati i suoi valori di lealtà alla vecchia DDR – avrebbe pagato il prezzo di quella eventuale rivelazione: Riccardo aveva promesso, e lo aveva protetto fino all’ultimo perché un uomo scampato all’Olocausto ha un drammatico attaccamento alla parola data.
Ecco perché dopo la morte del dirigente comunista Riccardo aveva finalmente deciso che quel vincolo era disciolto, e che lui poteva dire la sua: solo nel 2008, ovvero solo quando Gunther Potsche era già polvere.
Ma quando dieci anni fa andai a bussare alla sua porta, in Spagna, Riccardo era finalmente libero di rivelarmi ogni cosa. Nel cerchio ossessivo in cui chi scrive e racconta si ritrova stretto per sempre, oggi mi sembra che questo racconto, che nella prima edizione di “Qualcuno era comunista” – come vedrete tra breve – rappresentava il punto di scaturigine di tutto, sia importantissimo per capire meglio il rapporto tra il caso e la necessità, tra il ruolo degli individui e la loro capacità di interagire con la grande storia.
Lo pensavo anche allora, ma lo avevo racchiuso in una sola pagina. Oggi sono contento se chiunque prendesse fra le mani questo libro avvertisse, come me, la forza di questi cerchi concentrici che si stringono intorno a noi, la suggestione degli eventi e dei testimoni che non ti abbandonano mai, nemmeno quando finisci di scrivere.
Sono trent’anni che questi fantasmi non smettono di inseguirmi. La prima cosa incredibile del racconto di Riccardo è che lui tecnicamente non avrebbe dovuto essere lì. Altri avrebbero potuto aspirare al sui posto.
E quel giorno avrebbe persino potuto essere in ferie, se durante i lunghi giorni di ottobre un persistente senso di premonizione e di inquietudine non lo avesse tenuto inchiodato, per la disperazione di sua moglie e la gioia del collega (che avrebbe dovuto provvisoriamente dargli il cambio) nella Capitale della DDR.
E poi perché davvero il giornalista dell’Ansa stava arrivando tardi all’appuntamento più importante della sua vita, e me lo aveva raccontato ridendo: “Quel giorno avevo girato molto a lungo nel parcheggio del ministero: non trovavo posto. Avevo guardato l’orologio. Mi ero detto: ‘Non faccio in tempo, torno indietro’”.
Ma già in quegli attimi il destino aveva iniziato a giocare con lui. Proprio all’ultimo momento una macchina era uscita dal suo parcheggio, liberandogli una piazzola. Un uomo alla guida di una vecchia Trabant – fumigante e tossica come tutte le Trabant del paese – si era stupito di cedere il passo ad un gioiello tecnologico del consumismo occidentale: nientemeno che una Fiat Punto.
Senza questo passaggio di piazzola Ehrmann non sarebbe mai arrivato: “Per questo, come si può vedere anche nelle foto di quel giorno, non avevo trovato una sedia libera, e mi ero seduto alla base del podio degli oratori, sui gradini”.
Un dettaglio, come vedremo tra poco, assolutamente cruciale. Riccardo era lì perché, come sappiamo oggi, aveva avuto una soffiata decisiva, proprio quella mattina. E la circostanza, ancora dieci anni fa, suscitava in lui l’eco della sorpresa, un scarica di buon umore: “Oh caspita! Ero nel mio ufficio di corrispondenza, quando il telefono aveva squillato. Dall’altra parte dell’apparecchio una voce mi aveva sussurrato: ‘Sono l’uomo dell’U-boot!’. Eh, eh..”.
In quel momento Riccardo, riconoscendo il codice criptato del suo informatore gli aveva risposto: “So perfettamente chi sei. Parla’”. Dall’altra parte del telefono c’era herr Potsche: “Era un alto dirigente del partito con cui ero entrato in confidenza. Per vent’anni non ho rivelato a nessuno nemmeno il suo nome. Ma ora Gunther è morto, il mio patto di lealtà si è rescisso”.
Potsche era il direttore dell’Adn, l’agenzia di informazione della Germania dell’Est: “Ma – aggiungeva Riccardo, perché questo rappresentava un dettaglio decisivo per spiegare come mai gli facesse quella confidenza – era anche uno degli esponenti dell’area dei ‘rinnovatori’ all’interno del partito: ovvero del gruppo che ispirandosi alla Perestrojka di Gorbaciov sperava di salvare la Repubblica Democratica Tedesca con le riforme”.
Era bella anche la storia di quel nomignolo con cui Potsche si era ribattezzato ai suoi occhi: “In primo luogo perché il telefono – raccontava Riccardo – ovviamente era sorvegliato, e lo sapevamo entrambi. E poi perché la sede dell’Adn era collocata nei sotterranei del palazzo dell’informazione: senza nessuna finestra, dunque per questo il riferimento al sottomarino, lo U-boot”.
È curioso pensare che in tutto il mondo grandi giornali sono ospitati nei grattacieli dell’informazione, notizie vogliono volare e sfidano il cielo, ma che in un paese al contrario, come era la DDR di allora, la più importante agenzia di informazione non potesse che essere in un seminterrato, metafora perfettamente dell’informazione tombata.
Quella telefonata e il dialogo successivo sono la storia del rapporto paradossale tra “un giornalista al contrario”, che non può dare le notizie (ma ha il coraggio di rompere la consegna) ed uno diritto, che vive per farlo.
Questo scambio asimmetrico è un curioso chiasmo, che innesca la scintilla iniziale: “Potsche mi rivelò che c’era stato un grande e combattuto dibattito nel gruppo dirigente del partito: che il giorno prima si erano decise graduali aperture nella legge di viaggio che era stata costruita per impedire l’espatrio ai cittadini della DDR”.
Nel paese al contrario – infatti – anche le definizioni più banali raccontavano questo ribaltamento di senso. Ed è qui che erano entrati in campo “i rinnovatori”, il gruppo che aveva appena infranto il potere assoluto di Eric Honecker.
Erano sinceramente convinti di poter salvare il loro regime forzando il blocco imposto dal muro, introducendo graduali e progressivi ingredienti di liberalità in un paese fondato sulla repressione e sul controllo.
Speravano di riuscirci facendo girare di qualche grado la ruota del potere. Riccardo li frequentava questi uomini, li conosceva bene, era entrato in relazione con molti di loro.
Un grande scoop non esiste se non è figlio di un lavoro, di un contesto, di una immersione profonda in un mondo: “Avevo un rapporto di amicizia con Klaus Gysi, ex ambasciatore a Roma, padre di Gregor, attuale leader della Linke. Poi c’era Egon Krenz: l’uomo che aveva preso il posto di Honecker, che era il più ambizioso di loro. Schabowski, l’uomo che mi ritrovai di fronte quel giorno, era senza dubbio il più intelligente di tutti. Faceva il giornalista, aveva preso in mano ‘Neus Deutchland’, l’illeggibile giornale del partito facendone un riferimento per chiunque volesse capire quel paese: con questi dirigenti era possibile scambiare delle idee”.
E infatti solo pochi giorni prima i “Rinnovatori” avevano regalato a Riccardo un altro scoop di portata mondiale. Anche in quel caso era stata una soffiata di poche parole dello U-boot, un siluro del sottomarino ad allertarlo: “‘Guarda che Honecker non ha accompagnato Gorbaciov in aeroporto…’. La notizia aveva fatto il giro del pianeta. Era un segnale premonitore”.
Il muro stava già scricchiolando ma nessuno lo aveva ancora capito, né a Mosca, né a Berlino, ma nemmeno a Washington. Nemmeno loro che erano appena arrivati in cima al Muro, scalandolo, e stavano duellavano con gli “ortodossi”, che ci si erano abbarbicati e non volevano scendere.
Nemmeno loro aveva chiaro che le fondamenta di uno Stato stavano vacillando. La Germania era in quel tempo ancora un paese della cortina di ferro: pullulava di spie e di delatori a libro paga del regime, in un clima alla John Le Carrè.
Riccardo raccontando sospirava: “C’ero stato, la prima volta, nel 1976. Poi ero andato in India, nel 1982 ero tornato di nuovo a Berlino, quasi per caso: pare che nessuno dei colleghi che avevano la possibilità di essere trasferiti conoscesse il tedesco!”.
E di nuovo Riccardo rideva: “Vuoi un aneddoto sapido?”. Certo, gli avevo risposto: “Un giorno uno degli addetti diplomatici dell’ambasciata americana mi aveva detto: ‘Vuoi che ti faccia una bonifica all’appartamento?’. Parlava di microspie, ovviamente. Avevo risposto di sì, ma non immaginavo di essere così controllato”.
L’americano amico di Riccardo mandò un tecnico con un rilevatore di tensione: trovarono un microfono in ogni stanza della casa e ben due, chissà perché, in camera dal letto. Qui Riccardo aveva dato un altro saggio della sua sagacia, fermando il tecnico, che li voleva rimuovere: “Stai Scherzando? Non li tocchiamo”.
Avevo chiesto perché ma già intuivo la risposta: “Farlo avrebbe significato diventare sospetti, li avrebbero rimessi subito. Molto meglio sapere dov’erano, per potersi regolare quando si parlava. Però…”.
Qui il carattere toscano e irriverente aveva prevalso su tutto, suggerendo a Riccardo una follia: “Un giorno non resistemmo alla consegna di finta inconsapevolezza che ci eravamo dati: io e mia moglie eravamo allora in uno stato di vigore adeguato e, prima di concederci un momento di grande intimità gridai: ‘Adesso aprite il stereofonia che inizia uno spettacolo interessante!’”.
Una zingarata. Folle e geniale. Stavo pensando a come si potesse immaginare di poter dire una cosa simile nella Repubblica Democratica Tedesca del 1989, fra gli agenti della Stasi, il clima inquisitorio da “Le vite degli altri”, le mille orecchie che facevano capolino ovunque e le ossessioni orwelliane di un regime occhiuto, quando Riccardo mi aveva raccontato gli effetti sorprendenti di quella battuta: “Pochi giorni dopo un dirigente del ministero dell’informazione mi avvicinò sussurrandomi con un sorriso: ‘Siamo lieti di sapere che lei ha una vita familiare così vivace, herr Erhmann…’”.
Il gesto dadaista aveva prodotto un effetto insperato e opposto a quello immaginato. Aveva rassicurato i controllori, compiacendoli nella loro ossessione di vigilanza totale.
Ma torniamo al 9 novembre, all’antro razionalista e plumbeo del ministero dell’Informazione. La conferenza stampa è trasmessa in diretta sulla tv tedesca, e Riccardo – siccome è stato imbeccato dallo U-boot – inizia a martellare il povero Schabowski: “Lo attaccai più volte sulla legge che era in vigore fino a quel giorno: permetteva solo teoricamente l’espatrio – così recitava l’articolato – per chi possedeva un visto e un passaporto’. Peccato che nessuno in quel paese possedesse entrambi i requisiti”.
Avevo obiettato a Riccardo che queste non erano condizioni particolarmente anomale. Era scoppiato a ridere: peccato che, se per caso chiedevi il passaporto e non avevi il visto finivi automaticamente sulla lista nera della Stasi.
Mentre se avevi il visto e chiedevi il passaporto finivi direttamente in carcere, come sospetto. Ehrmann aveva rimproverato proprio questo a Schabowski, con il piglio della “seconda domanda”, e poi si era spinto fino a chiedergli se ci sarebbero state delle novità nella definizione delle regole-cardine della legge: “Non voglio dire – sospirava con il senno del poi – che ci volesse fegato ma…”.
Ce ne voleva. Tant’è che il dirigente del partito tedesco aveva risposto in affanno. “Disse proprio allora, e per via di questa pressione, la fatidica frase. Che i viaggi sarebbero stati possibili ‘Ad sofort’. Ovvero, tradotto dal tedesco: ‘Con effetto immediato”.
Si è scritto che Schaboski prima di quella conferenza stampa aveva ricevuto un fogliettino di Krentz, con una formula suggerita in cui era stata soppesata, con cautela, ogni parola. E che invece, preso dalla fretta, lesse male quell’appunto.
Lui, forse per giustificarsi, in un’occasione raccontò invece che l’appunto con la frase concordata era scritto a matita, con una mina molto pastosa, perché non aveva trovato una penna.
E aggiunse che ripassando nervosamente tra le mani quel foglietto, durante la conferenza stampa, aveva sbaffato le lettere fino a renderle illeggibili: “Possibile – mi rispose Riccardo – me lo sono chiesto anche io, tante volte. L’unica cosa certa – aggiunge il giornalista – è che nessuno di loro era preparato. Lui stesso era tornato appena dalle vacanze. Harald Jäger l’ufficiale che presiedeva uno dei varchi più importanti di Bornholmer Straße ha raccontato che apprese tutto soltanto dalla tv. E che dopo aver sentito il nostro botta e risposta aveva ordinato: ‘Su la sbarra’”.
In un’intervista alla tv tedesca – in occasione del ventennale del Muro – Jager disse anche che l’alternativa era sparare. Era evidente che in quel clima avrebbe potuto verificarsi un carneficina. Forse il Muro di Berlino sarebbe caduto lo stesso, ma dopo essere sprofondato in un lago di sangue denso.
“Invece – osservava Riccardo – dopo sole tre ore da quella domanda, il Muro di Berlino non esisteva più”. Nella stessa notte le bandiere bucate e ritagliate per rimuovere il simbolo con il compasso e il martello coronato di spighe della DDR, venivano sventolare dai ragazzi a cavalcioni della Storia: il tempo di Yalta e la guerra fredda erano finiti.
Riccardo ammette: “Non riuscivamo a capacitarci di quello che stava accadendo. Raccontavamo il precipitare degli eventi in presa diretta, senza avvertirne però la portata”. E se era difficile immaginare che sarebbe caduta la DDR era impossibile solo ipotizzare che a partire da quella domanda (e da quell’esodo) sarebbe potuta cadere l’Unione Sovietica.
Avevo chiesto a Riccardo se dopo tanti anni aveva stimato il peso di quella conferenza stampa. Lui mi aveva sorriso: “Contò molto, perché non sono immodesto. Ma contò anche molto poco, perché non sono megalomane. I tempi erano maturi. E i rinnovatori avevano in ogni caso deciso: non sai quando e come. Ma sai che accadrà”.
Avevo chiesto a Riccardo cosa si provava ad aver fatto lo scoop del secolo. A questo punto Riccardo era rimasto in silenzio, come se stesse ripercorrendo dentro di sé il lungo e concitato film di quelle ore: “Quel giorno ero corso a telefonare per dettare l’articolo. Avevo scritto nel pezzo questa frase: questo annuncio equivale alla caduta del muro’. Seppi solo dopo che, comprensibilmente, alla redazione esteri dell’Ansa di Roma il commento era stato laconico: ‘Ehrmann è impazzito’”.
Avevo domandato a Riccardo se alla luce di quella vicenda si fosse convinto che nella nostra professione la fortuna sia grande arbitro della nostra quotidiana battaglia, di giornalisti, con i fatti. Lui mi aveva risposto così: “La fortuna esiste, certo. Ma quella domanda era anche frutto di una lavoro di preparazione meticoloso e prolungato nel tempo, e di una grande conoscenza della DDR”.
Pausa, altro sorriso: “Nulla si improvvisa, mai”. C’era anche come in tutti i grandi racconti, un sottofinale. Quando Ehrmann molti anni dopo aveva reincontrato Gunther Schabowski, l’uomo che aveva avuto tra le mani il destino del socialismo reale si era dovuto reinventare una nuova vita.
E nella nuova Germania di Helmut Kohl, in cui la DDR era stata stravolta e rovesciata di nuovo fino a diventare nostalgia (in questo campo svetta la bellissima sintesi cinematografica di “Goodbye Lenin”), Schabowski per campare faceva il cronista di una testata locale.
I due volevano entrambi parlarsi, come se avessero la percezione di essere stati saldati per sempre, uno all’altro, dall’anello d’acciaio del 9 novembre. Riccardo e Gunther parlano davanti ad una pinta di birra in un locale di Berlino est.
L’ex dirigente della Sed non è arrabbiato, anzi, gli dice con un sorriso sornione: ‘Lo sa? Lei mi ha regalato una grande ispirazione’”. Riccardo era rimasto sbigottito.
E a distanza di tanti anni osservava: “In qualche modo è vero”. Altro sottofinale. Eppure, se Riccardo Ehrmann fosse arrivato in Germania da bambino, nel primo viaggio all’estero della sua vita, non avrebbe mai potuto fatto quella domanda.
Non era turismo, infatti. Riccardo era fiorentino, come sappiamo. Ma, come è altrettanto evidente, il suo è un cognome di origine ebrea-polacca dopo le leggi razziali era diventato un marchio per lui e per i suoi.
Nel 1942 a soli tredici anni anni Riccardo viene deportato in un campo di concentramento a Ferramonti, in Calabria. È la prima tappa della deportazione ad Auschwitz. Ma in Calabria, lui e i suoi genitori vengono liberati dagli alleati, che dopo lo sbarco in Sicilia risalgono la penisola per attaccare la linea Gotica.
Riccardo è l’ultimo di una storia: “Sono l’unico che è tornato da quella prigionia. Il resto della mia famiglia non esiste più”. Gli avevo chiesto se per lui era possibile che dietro l’ostinazione con cui alcuni giornalisti tedeschi avevano cercato di mettere in dubbio il suo ruolo, ci fosse il disagio per questa sua origine, una venatura di antisemitismo più o meno latente. Lui aveva preso un sospiro profondo. “Spero di no”.
E poi nei suoi occhi era apparso di nuovo un lampo di luce, il demone iridescente e fumantino del fiorentino impenitente, un taglio di sorriso nella ragnatela delle sue rughe: “Ma se fosse vero, sappi che anche solo per questo mi farebbe un piacere immenso, aver fatto proprio io quella domanda”.
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