Un anno e due giorni fa scoppiava il conflitto in Burundi: i sostenitori del presidente Nkurunziza da una parte, e i suoi oppositori dall’altra. Dall’aprile 2015 a oggi almeno 260mila sono state le persone costrette a fuggire dal paese e 595 i casi accertati dalle Nazioni Unite di tortura da parte delle forze governative, e si tratta probabilmente, secondo il rapporto Onu, di una cifra sottostimata.
L’Alto commissario Onu per i diritti umani Zeid Ra’ad Al Hussein ha espresso forti preoccupazioni sull’uso diffuso e sempre più frequente della tortura, della detenzione illegale e di altri trattamenti degradanti. La maggior parte dei maltrattamenti inferti alle vittime miravano a far confessare il proprio sostegno ai gruppi dei ribelli, o a rivelare i nomi degli stessi.
Gli analisti temono che le violenze sempre più efferate possano far ripiombare il paese in una guerra civile, riesumando il timore di un genocidio e riaprendo vecchie ferite etniche, tra gli Hutu e la minoranza Tutsi.
Ieri, 26 aprile 2016, la Corte penale internazionale, ha annunciato che aprirà un’inchiesta sulle violenze nel paese.
Un passo indietro – sabato 25 aprile 2015 il presidente in carica del Burundi Nkurunziza annunciava la sua candidatura, in vista delle elezioni presidenziali previste inizialmente per il 26 giugno e poi posticipate al 21 luglio 2015.
Il giorno seguente i manifestanti si radunavano in strada, appellandosi alla Costituzione del Paese, promulgata nel 2005 alla fine di una guerra civile durata dodici anni, che stabilisce un limite massimo di due mandati presidenziali, di cinque anni ciascuno.
Secondo i sostenitori di Nkurunziza i suoi primi cinque anni di presidenza non erano da considerarsi come il primo dei due mandati consentiti, dal momento che l’attuale presidente nel 2005 non venne eletto dal popolo, ma fu votato dai parlamentari dell’assemblea nazionale. Da quel giorno le proteste, degenerate in violenti scontri e durissime repressioni, non si sono mai fermate.
Dall’inizio degli scontri migliaia di persone sono fuggite dal Burundi in Ruanda, che nel 1994 è stato teatro di un genocidio costato la vita a oltre 800mila persone tra Hutu e Tutsi, due tra i principali gruppi etnici ruandesi e burundesi. Inoltre, migliaia di abitanti del Burundi si sono diretti verso il Congo e altri paesi limitrofi.
Pierre Nkurunziza alla fine vinse quelle elezioni presidenziali del 21 luglio del 2015 in un clima di forte tensione, con quasi il 70 per cento dei voti, assicurandosi così la carica di presidente per un terzo mandato.
Il presidente del Burundi e il suo partito sono alla guida del Paese dalla fine della guerra civile, che ha infiammato il Burundi dal 1993 al 2005.
Durante la guerra civile, l’esercito – all’epoca composto esclusivamente da Tutsi – si è scontrato con alcuni gruppi di ribelli Hutu. L’attuale presidente Nkurunziza era il leader di uno di questi gruppi.
Oggi sia i Tutsi che gli Hutu fanno parte delle forze di sicurezza dell’esercito. L’85 per cento della popolazione del Burundi, che conta 10,5 milioni di persone, appartiene all’etnia Hutu, mentre i Tutsi rappresentano il 14 per cento degli abitanti.