A San Pietroburgo non è andata come Vladimir Putin si aspettava. Al secondo Summit Russia-Africa del 27 e 28 luglio hanno partecipato soltanto 17 tra capi di Stato e di governo del continente, meno della metà dei 43 leader presenti al primo vertice del 2019. Tra gli assenti eccellenti figuravano i presidenti di Nigeria, Bola Tinubu; Kenya, William Ruto; e Repubblica Democratica del Congo, Félix Tshisekedi. Ma la partecipazione limitata non ha sorpreso più di tanto dopo il ritiro unilaterale di Mosca dall’accordo sul grano mediato con l’Ucraina da Onu e Turchia, una mossa definita dal segretario del ministero degli Esteri del Kenya, Korir Sing’Oei, «una pugnalata alle spalle».
Non che Putin non abbia tentato di risvegliare il sentimento anti-coloniale del continente, promettendo almeno 25mila tonnellate di grano gratis e accusando i Paesi ricchi di aver sfruttato l’accordo per i propri interessi. Un punto su cui i numeri danno ragione al Cremlino: stando ai dati Onu, dall’agosto 2022 al 17 luglio scorso, su oltre 32,9 milioni di tonnellate di cereali esportati dall’Ucraina, solo 4 milioni (il 12,24%) sono arrivate nei Paesi africani. Appena il 19,65%, circa 7 milioni di tonnellate, è andato a nazioni a reddito medio o basso e solo 725mila tonnellate sono state riservate al Wfp per alleviare le conseguenze di carestie e altre catastrofi soprattutto in Africa. Il restante 80,3% è andato invece a Stati a reddito medio-alto, di cui più della metà – circa 14 milioni di tonnellate, pari al 43,65% del totale – ai Paesi più ricchi del mondo (Italia compresa, dove sono arrivate oltre 2 milioni di tonnellate di cereali ucraini). Basterebbe questo per far capire che gli screzi con il Cremlino non avvicinano affatto i Paesi del continente e altri Stati emergenti all’Occidente, anzi.
Non a caso a San Pietroburgo erano presenti, tra gli altri, i presidenti di Sudafrica, Cyril Ramaphosa; Egitto, Abdel Fattah al-Sisi; e Senegal, Macky Sall; oltre al premier dell’Algeria, Aymen Benabderrahmane. Tutti Paesi, questi ultimi tre, che hanno chiesto ufficialmente l’adesione ai Brics, che oltre a Russia e Sudafrica comprende anche Brasile, Cina e India. Un formato che si pone sempre più come alternativo all’ordine internazionale dominato dagli Usa e dai suoi alleati in Europa e Asia e che si riunirà dal 22 al 24 agosto a Johannesburg, dove sono stati invitati tutti i leader africani.
Una lunga lista d’attesa
Il continente è fondamentale per i Brics, basti pensare che l’ultimo e unico Paese ad essere accolto dalla fondazione del gruppo è stato proprio il Sudafrica nel 2010 e che la più recente domanda di adesione è arrivata lo scorso mese dall’Etiopia dopo quelle di Algeria, Nigeria, Egitto e Senegal. Agli Stati africani poi si aggiungono giganti asiatici e sudamericani come Arabia Saudita, Indonesia, Iran e Argentina.
La lista però è molto più lunga, come ha confermato di recente l’ambasciatore sudafricano presso i Brics, Anil Sooklal, secondo cui 22 Paesi hanno fatto richiesta formale di adesione e altrettanti hanno mostrato interesse «in via informale». Tra i 40 Stati interessati figurano anche Paesi alleati della Nato, come la Turchia, o degli Usa, come gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrein e la Thailandia. Persino la Francia aveva chiesto (provocatoriamente) di partecipare come osservatore al vertice di Johannesburg, una richiesta prontamente negata. L’elenco comprende anche molti dei 39 Paesi che non hanno votato o hanno avversato la condanna della Russia per l’invasione dell’Ucraina nei tre voti all’Onu tra il marzo 2022 e il febbraio 2023, compresi Pakistan, Sudan, Kazakhstan e Zimbabwe, e che contano oltre 4,7 miliardi di persone.
Tuttavia, malgrado da anni i Brics si riuniscano nel formato Plus, che comprende Stati come l’Egitto già membri della Banca di sviluppo comune, nessuna nazione che abbia fatto domanda di adesione è stata ammessa finora. Eppure l’interesse non è scemato, perché?
Il gruppo comprende la Cina, ormai prima economia mondiale, e l’India, i due principali partner commerciali dell’Africa dopo l’Unione europea, mentre Pechino domina gli scambi anche in Sud America, Asia orientale, Pacifico ed Europa. Aderire ai Brics promette quindi nuove opportunità di commercio e crescita e permette di accedere a fonti di finanziamento internazionale diverse dalla Banca mondiale e dal Fondo monetario internazionale, tradizionalmente dominati da Usa ed Europa. Parte fondamentale della strategia dei Brics è infatti la New Development Bank (Ndb), con sede a Shanghai e 50 miliardi di dollari di capitale sottoscritto, che tra i suoi membri include già Egitto, Bangladesh ed Emirati Arabi e che dal 2014 ad oggi ha prestato 33 miliardi di dollari per finanziare 96 progetti di sviluppo nei cinque Paesi dell’organizzazione, utilizzando dal 2021 soltanto le valute locali.
Dal 2015 poi è arrivato anche il Contingent Reserve Arrangement (Cra), un fondo di riserva di emergenza considerato un concorrente del Fmi con cui fornire liquidità a breve termine ai suoi membri in caso di crisi. Ulteriore vantaggio per i Paesi interessati è la politica di “non interferenza” negli affari sovrani di altri Stati, che assicura a chi richiede prestiti di non dover sottostare a programmi di riforme né a critiche per il mancato rispetto dei diritti umani, una copertura politica molto popolare per certi regimi. Ma non è tutto oro quello che luccica.
Il mistero dell’anti-dollaro
Le opportunità offerte non sono però prive di incognite, a partire dal progetto di una valuta comune ai Paesi aderenti, di cui non si parlerà a Johannesburg e che per ora, secondo i ministri degli Esteri dell’organizzazione, non è proprio in agenda. Sebbene l’ambasciatore sudafricano Sooklal abbia notato come le «sanzioni unilaterali» contro Mosca accelerino il processo di integrazione tra i Brics mettendo fine «ai giorni di un mondo incentrato sul dollaro», a inizio luglio il ministro degli Esteri indiano, Subrahmanyam Jaishankar, ha dichiarato che le valute degli Stati membri rimarranno «una questione nazionale per lungo tempo». Una moneta comune, come ha recentemente sottolineato il governatore della Banca centrale sudafricana Lesetja Kganyago, richiederebbe prima un’unione bancaria e fiscale e poi una convergenza macroeconomica attualmente impossibile tra le diverse economie.
Inoltre, gli strumenti finanziari costruiti dai Brics sono ancora inadeguati a sostituire le istituzioni globali dominate da Usa ed Europa. Secondo i termini dell’accordo di costituzione, dal Cra la Cina può prendere in prestito fino a 6,2 miliardi di dollari; Brasile, Russia e India 5,4 miliardi ciascuno; e il Sudafrica appena 3 miliardi. Solo negli anni Novanta, l’Fmi ha prestato a Mosca 38 miliardi di dollari mentre nel 2002 il Fondo approvò una linea di credito per Brasilia da quasi 30 miliardi. Tutt’altri numeri, senza considerare che la Banca mondiale ha finora investito oltre 154 miliardi di dollari nei cinque Paesi Brics, rispetto ai 33 stanziati dalla Ndb.
Tutto questo poi al netto delle divergenze politiche tra gli Stati membri, in primis India e Cina. Formalmente, i due Paesi non hanno mai risolto le dispute territoriali sorte con la fine del colonialismo e la guerra del 1962. Inoltre, New Delhi e Pechino sono in forte disaccordo sulla riforma del Consiglio di sicurezza dell’Onu, dove l’India vorrebbe sedere come membro permanente quanto la Cina. Da anni poi, pur aderendo alla Shanghai Cooperation Organisation (Sco), il governo indiano di Narendra Modi flirta con gli Stati Uniti, partecipando addirittura insieme a Usa, Australia e Giappone al Quadrilateral Security Dialogue (Quad), diretto al contenimento di Pechino. Anche l’avvicinamento obbligato tra Mosca e la Cina è tutt’altro che gioioso, visti i forti sconti ottenuti da Xi Jinping su gas, petrolio e grano russi.
Insomma è tutta una questione di convenienza mentre gli Usa sembrano fermi al vecchio “divide et impera” per impedire sfide al proprio dominio globale. Il resto del mondo però sembra voler andare da tutt’altra parte.