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    Brexit, come siamo arrivati fin qui: breve storia di un lungo cammino

    Credit: Glyn Kirk/Afp

    Il cammino del governo di Londra in attesa del voto finale parlamentare è tutt’altro che scontato. Avvenimenti, episodi e mappa di un percorso che da subito si è presentato in salita e che potrebbe mandare in fumo un anno e mezzo di trattative

    Di TPI
    Pubblicato il 15 Gen. 2019 alle 13:00 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 20:04

    Il 15 gennaio 2019 è un giorno decisivo per il Regno Unito. Il parlamento britannico è chiamato a votare l’accordo per la Brexit.

    L’accordo era già stato approvato con i leader dell’Ue a novembre 2018, ma  necessario che venga approvato dal Parlamento prima di diventare effettivo.

    Il Regno Unito lascerà l’Ue il 29 marzo 2019, indipendentemente dal fatto che l’accordo sia approvato dai parlamentari o meno.

    Ma come siamo arrivati fin qui? Riavvolgiamo il nastro per capire cosa è successo nel Regno Unito negli ultimi 2 anni e mezzo.

    Il referendum del 23 giugno 2016

    Il 23 giugno del 2016, c’è stato il voto referendario. Il Regno Unito ha votato –  con quasi il 52 per cento a contro il 49 per cento – per abbandonare l’Unione Europea. Non passa tanto tempo, qualche settimana, e il Primo Ministro David Cameron si dimette, lasciando spazio alla vincitrice delle “primarie” all’interno del partito conservatore Theresa May, proveniente dal Ministero dell’Interno.

    Intanto si preparano le squadre di negoziatori, gli avvocati divorzisti sono David Davis per il Regno Unito, mentre per l’Unione Europea viene nominato Michael Barnier, navigato politico francese molto familiare ai corridoi di Bruxelles.

    Theresa May inizia pubblicamente a rilasciare dichiarazioni e discorsi solenni nei quali sottolinea la volontà di rispettare la scelta del referendum, dichiarando che il Regno Unito lascerà in maniera netta l’Unione Europea. Via dal mercato unico, dall’unione doganale e fine del libero movimento anche per capitali e persone.  Sostiene ad ogni modo che intende mantenere un buon rapporto con l’Unione Europea cooperando su vari settori, fra questi il commercio.

    Consegna notifica di abbandono e primo scontro con il Parlamento

    Iniziano le frizioni con il Parlamento in quello che sarà, per tutta la durata del processo (ancora in corso) un vero e proprio scontro di carattere istituzionale. Il governo non può infatti inviare la notifica di abbandono all’Ue – come previsto dalla clausola 50 del Trattato di Lisbona – senza prima passare per via di un voto parlamentare. Tale ricorso è stato mandato avanti da Gina Miller, un’imprenditrice britannica, appartenente (ovviamente) alla fazione del Remain. Vinta la causa, il parlamento vota comunque la notifica, che avverrà il 29 marzo del 2017, momento in cui l’ambasciatore Ivan Rogers – rappresentante britannico all’Ue consegna – come previsto dal trattato – la lettera al presidente del Consiglio Europeo Donald Tusk. Da questo momento ci sono uffialmente due anni per concludere il processo di abbandono.

    L’effetto boomerang: le elezioni del 2017

    Theresa May, durante una vacanza in Galles, decide di rinforzare la sua maggioranza parlamentare provando (malamente, con il senno di poi) a raddoppiare la posta. La May intende legittimare la propria premiership incrementando ulteriormente la maggioranza per avere più potere negoziale con Bruxelles. Punta alle elezioni anticipate, che si terranno poco dopo. Mossa rivelatasi fatale, poichè perde addirittura la maggioranza di cui poteva godere in precedenza e adesso non ha i numeri.

    Il Dup – piccolo partito unionista e protestante del Nord-Irlanda – appoggia Theresa May con dieci seggi, facendo si che si possano avere i numeri alla Camera dei Comuni in quella che è attualmente la vera stampella del governo nei banchi parlamentari.

    Trattative in corso, si parte

    Intanto a giugno sono inziate le trattative, che termineranno, per la prima parte del loro corso, a dicembre 2017. La premier britannica Theresa May concorda con l’Unione europea che il Regno Unito aderirà alle quattro libertà richieste per poter partecipare al mercato unico europeo anche dopo il 29 marzo 2019, finché non troverà una soluzione per poter controllare il flusso di merci e persone da e verso l’Irlanda, senza implementare controlli di frontiera. Quest’ultima sarà una spina nel fianco per tutta la trattativa.

    Nella prima parte si è fatto chiarezza sul come lasciarsi, su tre grandi punti. Il conto da pagare, i diritti dei cittadini europei e britannici e su come il Regno Unito si impegni per mantenere vivi gli accordi di Belfast sottoscritti 20 anni prima mantenedo il confine aperto fra le “due irlande” (La Repubblica d’Irlanda e il Nord Irlanda britannico).

    Si inizia negoziare la transizione e i punti chiave sul futuro post-Brexit

    Si tratta adesso per il periodo di transizione post-Brexit – accordato per il 31 dicembre 2020 – dopo essersi accertati che due anni sono e saranno insufficienti, non solo per lasciarsi ma anche per decidere come ri-relazionarsi in futuro. A questo punto il Consiglio europeo adotta delle linee guida per trattare questa seconda fase, oltre alla parte che interessa – in maniera molto generica – quale genere di futuro si vuole sulle relazioni una volta che il Regno Unito sarà un paese terzo.

    Dal momento dell’inizio delle trattative Theresa May ha assunto gradualmente una posizione sempre più morbida nelle richieste con l’Ue. Cosa che le ha attirato le ire della fazione ortodossa dei Brexiteers, che l’hanno sempre accusata di essere troppo debole nei negoziati con il blocco europeo.

    La riunione con l’accordo di Chequers

    Dopo innumerevoli trattative interne, colloqui, compromessi e trame, Theresa May riesce a concludere con il suo governo una bozza di accordo da presentare all’Ue, che l’ha sempre “accusata” di non parlare mai con una voce unica e non avere le idee chiare sul da farsi.

    Apparentemente fila tutto liscio, sino a quando, in successione, non iniziano a dimettersi diversi componenti del governo che inizilmente le avevavo dato il loro appoggio per il piano da presentare al negoziatore europeo Barnier. Su tutti, i due pesi massimi anti-europei che rispondono ai nomi di David Davis (Ministro apposito per la Brexit) e Boris Johnson (ministro degli Esteri). A David Davis succederà Dominic Raab, solo per pochi mesi. Si dimetterà anche lui dopo qualche mese in disaccordo con Theresa May sull’accordo che attende (ancora oggi) il vaglio parlamentare.

    Accordo finale raggiunto nel partito e via libera con l’Unione Europea

    Il governo May infatti dovrà aspettare sino a novembre, ulteriormente rimodellando quello di Chequers rifiutato dall’Ue a Settembre, per trovare un accordo ancora migliore che metta tutti i Tories nelle condizioni di supportarlo nel suo governo. Il compromesso è finalmente trovato anche con l’Ue. Fra tanti mal di pancia e con tante riserve, il governo trova infatti l’accordo con l’Unione Europea,  con  circa 600 pagine di clausole sui più disparati punti. Tutto rimane invariato sino al 2020 nel perido di transizione (compreso).

    Spina del fianco, una su tutte, la questione del “backstop irlandese”, che prevede che il Regno Unito rimanga nell’Unione doganale sino a quando non si troverà la soluzione per rendere il confine irlandese invisibile, per giunta con il Nord-Irlanda ancora più immerso nelle regole europee rispetto al resto della Gran Bretagna.

    I timori per i Brexiteer sono quelli che questo “backstop” sia infinito, visto che il Regno Unito non potra abbandonarlo unilateralmente. Un polizza di assicurazione che è stato il fondamento e un paletto insidacabile di Bruxelles nel difendere sia l’Irlanda che l’integrità del suo mercato interno.

    Attesa per il voto parlamentare, o veto parlamentare

    Più è passato il tempo, e più Theresa May è ritornata gradualmente sui suoi passi. Il compromesso, la realtà politica e una trattativa che ha visto 27 stati uniti nella loro posizione sono state le fatiche maggiori della donna inquilina al N°10 di Downing Street. Theresa May che, è bene ricordare,  è persino sopravvissuta di recente a un voto di sfiducia interno al suo partito per disarcionarla dalla leadership.

    Punto fermo e arma dell’Unione è sempre stato il non consentire al Regno Unito di sceglieire solo le parti “vantaggiose” dell’Unione Europea, per evitare che altri ne possano seguire l’esempio in futuro.

    In buona sostanza, l’accordo in linea di massima scontenta i Brexiteers che lo giudicano troppo “servile” nei confronti dell’Ue, mentre i Remainers europeisti troppo poco esaustivo per non limitare i danni dell’uscita, con buona parte di essi che preme per un secondo referendum.

    Accordo che però ha bisogno del vero sovrano di tutta la procedura, il parlamento di Westminster che se non lo voterà, significherà per il governo l’elaborare una strategia alternativa entro tre giorni.

    Parlamento “sovrano” appunto, proprio nella culla della democrazia parlamentare.

    L’altro, di sovrano, sta a Buckingham Palace, ma da quelli parti non faranno storie, così sembra.

    Stay tuned.

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