Should I stay or should I go cantavano i Clash sulle note
dell’omonima hit che scalò le classifiche fino alla vetta nei primi anni Novanta. D’altronde, non si può certo dire che gli inglesi non siano da sempre
grandi amanti del rock. La Gran Bretagna sembra essere rimasta ferma proprio a
ciò che si chiedeva Mick Jones, voce del gruppo, nell’ambito del rapporto con
l’Unione Europea.
Restare o andare via è un quesito più volte riproposto e mai
esaurito. Basti pensare ai vari opt out di cui l’isola d’oltremanica detiene il
primato assieme ai cugini del Regno di Danimarca.
Già oggi gli inglesi non fanno parte dell’acquis di Schengen
né dell’unione monetaria, non rispondono alla Corte di giustizia in merito ad
eventuali violazioni della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione e
decidono caso per caso in materia di cooperazione giudiziaria e di polizia in
materia penale.
Se tutto ciò ha portato qualcuno a definire la Gran Bretagna
già oggi un’outsider dell’UE che resta de facto fuori dal dibattito sui
principali temi che hanno animato i consessi europei negli ultimi anni – dalla crisi debitoria di
alcuni membri dell’eurozona a quella dei migranti, oltre a quello su un
eventuale ulteriore approfondimento dell’integrazione economica – non aveva
calcolato che la canzone dei Clash, evidentemente, gli inglesi ce l’hanno nel
sangue.
Così i discendenti di bretoni e sassoni, oscillanti tra
tendenze isolazioniste da una parte e la consapevolezza della necessità di
rimanere ancorati al sistema europeo per una serie di ragioni dall’altra, tra
cui la consapevolezza che il mercato unico europeo, da cui la Gran Bretagna
trae grandi vantaggi, esiste solo grazie e dentro l’Unione e che non è
destinato a sopravvivere alla sua crisi, sono chiamati alle urne per esprimere
la loro volontà: brexit o bremain è ciò che oggi sembrano poter scegliere.
Eppure, la situazione è un po’ più complessa. Innanzitutto
perché il mandato di divorzio dall’Unione che firmerebbero i cittadini inglesi
se vincesse il “Sì”, sarebbe del tutto o quasi un salto nell’ignoto.
L’eventuale uscita di uno stato membro, pur introdotta su
carta dall’Art. 50 del trattato sull’Unione europea, non si è mai vista nei
fatti. Ergo, tutto eventualmente dipenderà da ciò che verrà negoziato tra i due
“ex coniugi” nell’arco di due anni a partire dall’eventuale notifica da parte
del Regno Unito del risultato positivo del
referendum al Consiglio europeo.
Secondo, sebbene il quesito referendario sia formulato in
maniera apparentemente semplice – “Il Regno Unito deve restare nell’Unione
Europea o deve lasciare l’Unione Europea?”- nessuno sa che fine farebbero tutte
le questioni minori collegate all’appartenenza.
Ad esempio, cosa farebbe la Gran Bretagna rispetto a tutti
gli accordi commerciali che l’Unione europea ha sottoscritto con paesi terzi? O
ancora, che fine farebbero gli europarlamentari inglesi con incarichi di
rilievo in ambito comunitario durante il periodo di transizione? E i funzionari
inglesi in Consiglio o in Commissione? Vista la totale situazione di incertezza
non sorprendono le file ai consolati di altri stati membri dei britannici che
risiedono all’estero per ottenere la cittadinanza, o l’andamento fin troppo
ballerino dei mercati. La verità è che noi europei siamo molto più impreparati
di quanto crediamo, sia a livello istituzionale che economico, a un’eventuale
brexit.
L’argomento democratico in favore del referendum, forte e
motivato, non giustifica da solo la valenza del ricorso allo strumento senza
un’adeguata informazione su come funzionerebbe nei fatti un’uscita dall’Unione.
Esso ci porta su un terreno pericoloso, capace di creare un
precedente difficilmente gestibile nelle condizioni attuali. La risposta
democratica che tutti i cittadini europei e non solo gli inglesi attendono, non
deve consistere nell’indire una serie di referendum nazionali sull’appartenenza
o per meglio dire la convenienza nel restare nell’Unione ma in un grande
mutamento dell’assetto istituzionale dell’Unione in senso democratico.
Solo così l’Europa si dimostrerà capace di salvare se stessa
e di tornare un progetto attrattivo per chi ne fa parte e non solo. Non sarà
mica tutta colpa del rock.