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    Brexit: quale futuro per l’Irlanda del Nord?

    L’uscita dall’UE riscriverebbe gli accordi commerciali tra Regno Unito e Unione Europea, creando serie incognite per l’economia nordirlandese. L'analisi di Filip Forti

    Di TPI
    Pubblicato il 22 Giu. 2016 alle 17:49 Aggiornato il 11 Set. 2019 alle 00:15

    Dopo quasi trent’anni di guerra civile nella quale hanno
    perso la vita oltre 3.500 persone, l’Irlanda del Nord sta vivendo un periodo di
    relativa calma sia dal punto di vista politico che sociale.

    Infatti, il Good Friday
    Agreement
    (“Accordo del Venerdì Santo”) firmato nel 1998 dai rappresentanti
    dei governi del Regno Unito e della Repubblica d’Irlanda e approvato dai
    principali partiti dell’Ulster (Sinn Fein, SDLP) seppur senza l’appoggio del
    principale partito filo-britannico della regione (DUP), ha definitivamente
    sancito la fine del conflitto nordirlandese.

    Il trattato, oltre a definire le modalità di scarcerazione
    dei militanti dei vari gruppi paramilitari attivi nell’area (IRA, UVF, UDA) e a
    definire gli step necessari per la ricostruzione sociale ed economica della
    regione, ha imposto alla Repubblica irlandese di eliminare dalla propria
    costituzione l’obiettivo di un ricongiungimento delle sei contee sotto
    dominazione britannica con il resto dell’isola, ufficialmente indipendente dal
    1949.

    Un’eventuale riunificazione sarebbe possibile solo
    attraverso un referendum popolare.

    Come noto, il 23 giugno 2016 tutti i cittadini britannici
    sono chiamati alle urne per decidere della permanenza del Regno Unito
    nell’Unione Europea. Restare o fuggire, questo è il dilemma.

    Nonostante in molti tendano a confondere il Regno Unito con
    l’Inghilterra, il territorio di Sua Maestà la regina Elisabetta comprende anche
    la Scozia, il Galles e per l’appunto l’Irlanda del Nord (anche nota come Ulster).

    L’eventuale uscita del Regno Unito avrà certamente un
    impatto importante sulla quotidianità degli abitanti dell’Ulster, o perlomeno
    di quelli delle sei contee della regione facenti parte dell’Irlanda del Nord
    (le tre restanti contee dell’Ulster appartengono all’Eire). Le conseguenze
    economiche, sociali e politiche del voto non sono semplici da prevedere, ma la
    maggior parte degli studi indicano che l’Irlanda del Nord sarebbe la regione
    più “colpita” dalla Brexit.

    In primo luogo è necessario considerare gli aspetti
    economici dell’uscita dall’UE.

    L’economia nordirlandese rischierebbe di risentirne
    parecchio, specialmente considerando che tra le nazioni facenti parte del Regno
    Unito, è l’unica ad avere una frontiera con l’Unione Europea, nel caso
    specifico circa 500 chilometri che fanno da confine con l’Eire.

    Il valore degli scambi commerciali tra i due stati che
    compongono l’“isola di smeraldo” supera il 30 per cento del totale delle
    esportazioni e il 25 per cento delle importazioni nordirlandesi. Inoltre, circa
    il 55 per cento sia delle esportazioni che delle importazioni della regione
    hanno come punto di partenza o di arrivo l’Unione Europea.

    L’enorme valore di questi scambi commerciali rischierebbe
    seriamente di essere messo in pericolo dall’uscita dall’UE, che imporrebbe il
    rafforzamento della frontiera tra l’Eire e l’Irlanda del Nord.

    Inoltre, la generale assenza di dazi, tariffe doganali e
    controlli sullo scambio di merci, servizi e il movimento dei lavoratori
    all’interno dell’Unione ha influito positivamente sull’economia della regione
    settentrionale dell’isola.

    L’uscita dall’UE imporrebbe la stipulazione di nuovi accordi
    commerciali tra Regno Unito e Unione Europea, creando serie incognite
    sull’impatto di questi ultimi sull’economia britannica e in particolare
    nordirlandese. In aggiunta, i cospicui sussidi e fondi strutturali che l’UE riserva
    all’agricoltura permetteranno al settore primario nordirlandese di incassare
    circa 3,5 miliardi di euro nel periodo 2014-2020.

    Nonostante questo settore sia in crisi, così come nella
    maggior parte degli altri paesi dell’Unione, l’agricoltura rappresenta oltre il
    2,5 per cento del PIL dell’Irlanda del Nord, ovvero una porzione leggermente
    superiore rispetto all’1 per cento del PIL del Regno Unito.

    Nel tentativo di analizzare le possibili conseguenze della
    Brexit sull’Irlanda del Nord è impossibile prescindere dall’eventuale impatto
    politico e sociale del voto sulla popolazione dell’Ulster. In una regione che
    meno di vent’anni fa usciva a fatica da un sanguinoso conflitto civile che ha
    causato diverse migliaia di morti e feriti, l’eventuale uscita rischierebbe di
    minare gli accordi di pace.

    La fragilissima stabilità politica e sociale raggiunta negli
    ultimi anni è stata favorita dalla silenziosa partecipazione delle istituzioni
    europee che, come affermato dal primo ministro dell’Eire Enda Kenny, hanno
    avuto il compito di agevolare i rapporti tra i governi britannico e irlandese,
    permettendo in questo modo di rafforzare la fiducia degli uni negli altri.

    Detto questo, l’accordo faticosamente raggiunto nel 1998 è
    costantemente legato ad un filo. La maggior parte dei punti cruciali di questo
    trattato non hanno soddisfatto in pieno il popolo nordirlandese.

    Basti considerare il fatto che l’accordo ha imposto la
    scarcerazione progressiva di diverse migliaia di prigionieri politici e membri
    delle organizzazioni paramilitari come IRA e UVF, che per decenni hanno
    commesso attentati e assassinato centinaia tra civili, militari e politici.

    Nel mese di luglio del 2015 ho avuto modo di intervistare
    Alan McBride, membro attivo della comunità protestante che in un attentato
    dell’IRA nell’ottobre del 1993 perse la moglie e il suocero. Secondo i termini
    dell’accordo di pace, Sean Kelly, il principale esecutore materiale
    dell’attentato, nonostante sia stato riconosciuto colpevole di omicidio e atti
    di terrorismo, è stato liberato nel 2000 dopo aver scontato appena sette anni
    di carcere.

    Naturalmente la domanda più delicata che gli posi riguardava
    proprio la liberazione dell’assassino di sua moglie e cosa pensasse dei termini
    dell’accordo. McBride in tutta franchezza mi rispose che se dal lato personale
    provava un sentimento di profonda ingiustizia per la prematura liberazione di
    Kelly, da un punto di vista politico giustificava i termini dell’accordo e
    considerava il suo sacrificio come necessario in nome di un greater good, ovvero il disperato
    bisogno di pace e serenità del popolo nordirlandese per troppi anni bersagliato
    da terroristi, collusione tra stato e organizzazioni paramilitari e da una
    guerra fratricida che fino alla metà degli anni Novanta sembrava non potesse
    mai finire.

    Questo equilibrio raggiunto a fatica sia dalle comunità che
    dalle istituzioni nordirlandesi è messo a repentaglio dal referendum del 23
    giugno. Gli effetti politici e sociali che il voto potrebbe avere sulla
    popolazione dell’Ulster non sono facilmente definibili o quantificabili, ma non
    c’è dubbio che in questa fase del processo di pace, rimettere in discussione lo
    status quo rischia in primo luogo di esacerbare i rapporti tra la Repubblica
    irlandese ed il suo vicino settentrionale. Inoltre la vittoria del “sì” (uscire
    dall’UE), accentuerebbe in modo più netto la divisione tra le comunità.

    Da un lato la maggior parte dei nazionalisti (cattolici)
    preferisce restare nell’UE, mentre una parte piuttosto consistente dei lealisti
    (protestanti) vorrebbe uscirne, di fatto rilanciando il dibattito sulla
    permanenza dell’Irlanda del Nord in seno al Regno Unito.

    In una fase tanto cruciale quanto delicata del processo di
    pace qualsiasi segnale di instabilità rischia di riacutizzare le tensioni
    sociali, politiche ed economiche tra i vari gruppi politici e religiosi che
    compongono questo piccolo stato della periferia del Regno Unito.

    *articolo a cura di Filip Forti

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