Mentre la questione Brexit continua a navigare senza una direzione ben precisa, fa scuola un altro episodio, simile e diverso allo stesso tempo. La vicenda Grexit della Grecia finita sotto i riflettori del mondo nel 2015.
Sebbene quasi tutti durante la crisi dell’Euro tra il 2010 e il 2015 fossero convinti che Atene avrebbe dovuto lasciare la zona euro, se non addirittura l’Unione europea, il paese è rimasto membro di entrambi.
Regno Unito e Grecia sono molti diversi per economia, cultura, società e storia. Il primo è la quinta potenza economica mondiale, il secondo un piccolo Stato del Sud Europa con difficoltà che chi ha un po’ di confidenza con l’attualità politica non fatica a conoscere.
A differenza di quella britannica, infatti, quella greca è una delle economie più piccole dell’Ue e Atene è un destinataria netta di fondi europei, ossia riceve più di quanto versa a Bruxelles.
La vicenda greca, lo scontro con Bruxelles e la marcia indietro
Sulla Grecia si era persino paventata, fra analisti e addetti ai lavori, l’ipotesi di espulsione dall’Eurozona (anche se non esiste una via legale), mentre il Regno Unito ha scelto di sua iniziativa di abbandonare l’Ue. Eppure la storia dell’allora così chiamata “Grexit” offre importanti lezioni per la fase finale dei negoziati (che l’Ue non vuole riaprire) sulla Brexit.
La prospettiva della Grexit si è attenuata dopo che nel 2012 una maggioranza trasversale del parlamento greco ha sostenuto il secondo piano di salvataggio di Atene e la relativa ristrutturazione del debito.
La minaccia è ulteriormente diminuita dopo che il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, dichiarò che la Bce era pronta a fare “tutto il necessario” per preservare l’euro, la oramai celebre affermazione che lo consegnerà alla letteratura economica , il “wathever it takes”.
Il rischio di una Grexit è tornato poi nuovamente in superficie nel 2015, quando un governo greco neo-eletto ha portato avanti i negoziati sul metodo di salvataggio sull’orlo del baratro, prima di fare un vero e proprio testa-coda con un inversione di direzione.
Una settimana dopo un referendum che aveva visto il 61 per cento dei greci votare contro l’accordo con la troika (Ue, Fmi e Bce), il parlamento ellenico ha votato per un terzo piano di salvataggio, ignorando il responso delle urne, evitando, di fatto, il collasso di Atene e mettendo fine alla vicenda “Grexit”.
Il parallelo fra Londra e Atene: l’assenza di una strategia di lungo termine
Ci sono un certo numero di lezioni utili nel contesto della Brexit. La prima è che il potere negoziale non è mai nelle mani di un singolo paese. Ciò significa che l’Ue non può essere né ricattata né divisa costruendo alleanze convenienti con altri stati in difficoltà, specialmente quando si tratta di un paese che lascia il condominio. Inoltre, nessun negoziato politico può ignorare problemi di natura tecnica o legale.
Proprio come Atene, Londra non ha compreso le dinamiche politiche e istituzionali dell’Ue. Ciò ha portato il Regno Unito a seguire una strategia imperfetta, basata su una convinzione erronea del proprio potere negoziale.
Così come Atene, inoltre, al Governo britannico è mancata da subito una chiara strategia a lungo termine. Voler lasciare l’Ue non è abbastanza, bisogna anche pianificare come farlo e prevedere cosa può succedere il giorno dopo.
Come con la Grexit, il tempo ha funzionato a favore di Bruxelles. Nel 2015, l’Ue era preparata alla gestione di una possibile Grexit, allo stesso modo di oggi con la Brexit.
Il timore iniziale di contagio dopo il referendum britannico del giugno 2016 ha lasciato il posto all’emergere di un fronte europeo sorprendentemente coeso, senza dubbio aiutato da considerazioni geopolitiche più ampie, quali il tenere in considerazione altre sfere di potere, come Stati Uniti e Cina, con cui potersi confrontare in maniera unita e parlando con una voce sola.
Paradossalmente, la Brexit e il constatare le difficoltà di uscita di uno stato membro hanno aumentato la fiducia nell’Ue e nell’Euro.
Sempre allineata e parlando con una voce sola, l’Unione europea ha infatti gestito la Brexit con una combinazione di principi, burocrazia e rispetto delle (sue) regole.
Le armi dell’Unione europea: la coesione e il fattore tempo
L’asimmetria nel potere negoziale (27 stati da una parte del tavolo e uno solo dall’altra) e il difficile processo decisionale interno al Regno Unito hanno rafforzato ulteriormente la posizione di Bruxelles, avvantaggiatasi, forse, della mancanza di prospettiva strategica, come avvenne durante la crisi della Zona Euro per Atene.
Mentre si passa alla fase finale della Brexit, alla Camera dei Comuni di Londra manca ancora una maggioranza condivisa per qualsiasi opzione, con la convinzione, sempre più marcata, che la premier Theresa May non abbia il sostegno sufficiente per un compromesso realistico alternativo alle crescenti speranze di un secondo referendum, noto anche come “People’s Vote”.
Tutto ciò suggerisce che l’Ue – contrariamente alle aspettative del campo pro-Brexit – non batterà ciglio. Al massimo potrà fare delle piccole concessioni per un consentire a Westmintser di fare un ultimo tentativo per ottenere la maggioranza per il passaggio della legge di ritiro chiusa a novembre, ma non di più.
D’altra parte, invece, si concentrerà sulla propria unità preparandosi ad ogni eventualità. L’Ue accetterà qualsiasi proroga della scadenza del 29 marzo per evitare di essere storicamente incolpata per il crollo economico del Regno Unito, ma non ci saranno negoziati dell’ultima ora, come avvenne nel 2015 con la Grecia.
Solo due risultati potrebbero essere accettabili per Bruxelles per poter fare un accenno di marcia indietro su un accordo ufficialmente chiuso già da novembre.
Il primo è un accordo di unione doganale con il Regno Unito di durata permanente, il secondo è quello del sopracitato People’s Vote che inverta in modo convincente il risultato del referendum del 2016.
Questa seconda ipotesi, il sogno proibito del popolo dei Remainers, è l’alternativa a lungo termine preferita dall’Ue. In questo caso Bruxelles dovrebbe aiutare la fazione europeista, anche se, ovviamente, non potrebbe farlo apertamente in quanto risulterebbe come una vera e propria invasione di campo.
Quello che farà l’Ue è attenersi ai principi che essa stessa ha stabilito e lasciare che il tempo faccia la sua parte.
In fondo, è chiaro che mantenere il Regno Unito nell’Unione europea è nell’interesse di entrambe le parti. Ma la mancanza di un accordo – a pensarci bene – è ciò che ha impedito alla Grecia di abbandonare l’ipotesi di addio nel 2015.
Leggi l'articolo originale su TPI.it