No, questi non sono tempi normali.
Si tornerà alle urne, ancora una volta. Il dubbio non era se, ma quando. Adesso c’è anche il quando: il 12 dicembre, e come sempre, da queste parti, quando si va alle urne è un giovedì. L’ ultima volta che si votò sotto Natale correva l’anno 1923, la Regina Elisabetta non era ancora nata.
Da quel giugno 2016 – quando il Regno Unito si svegliò con un risultato che aveva ribaltato i pronostici – la politica oltre la Manica non è stata più la stessa, e forse non lo sarà mai più.
Tre premier, due parlamenti e adesso arriverà il terzo, a cercare di trovare la giusta combinazione. Una slot machine in cui si rilancia di continuo sperando escano i frutti che si desiderano, la combinazione vincente.
Forse bisogna tornare indietro a quando Nigel Farage nel 2014 alle elezioni europee iniziò a rosicchiare voti al Partito Conservatore, tanto da convincere David Cameron che era ora di dare carne fresca agli anti-europeisti del suo partito. Promise quindi il referendum nel suo manifesto elettorale del 2015 con il quale vinse le elezioni, riconfermando la sua carica che ricopriva dal 2010.
Ma da quel giugno 2016 è cambiato il modo di vivere la politica nelle piovose giornate del Regno Unito. Si parla di Brexit, tutto il resto è zero. Cameron non c’è più, nemmeno si sente, lui la politica l’ha lasciata. Theresa May ha provato a raddrizzare la corsa, cercando un divorzio indolore.
Nel 2017 è andata davanti agli elettori, a prendersi la legittimità di quella carica ereditata, ma da super favorita la maggioranza l’ha persa, dovendo ricorrere al piccolo partito Dup del Nord Irlanda per avere una stampella e provare a camminare fra il palazzo di Westminster e Bruxelles per negoziare l’addio.
Ed è così che è arrivato Boris Johnson, a subentrare nel momento più difficile della storia britannica dal secondo dopo-guerra, con un popolo spaccato a metà fra chi crede nell’Europa politica e chi ci vede solo una terra vicina per la geografia.
Ha coronato il suo sogno nel diventare Premier. Divisivo, spontaneo, rustico ma allo stesso tempo geniale. Fuori dagli schemi e dai protocolli della diplomazia internazionale. Andrà a chiedere la riconferma nei quattro angoli del Regno, per capire se il popolo davvero sta con lui.
Se crede alla sua versione della Brexit, alla sua visione per il futuro di un’isola che nel 2019 cerca di capire da che parte vuole stare in un mondo che ragiona sempre di più per blocchi ogni giorno che passa.
Lui che giurava di poterla concluderla questa Brexit infinita, che ha concluso un accordo con Bruxelles che ancora una volta il Parlamento più antico del mondo ha rifiutato.
Dall’altra parte, gli avversari giurano guerra all’ultimo voto. I Laburisti di Corbyn promettono un altro referendum, così come gli scozzesi che in Europa ci vogliono rimanere e minacciano di volersi staccare, e i Lib-Dem che promettono di ritirala del tutto la richiesta di uscita se mai dovessero mettere i piedi dentro Downing Street.
C’è il silenzioso Galles, l’insoddisfatta Scozia, la più grande Inghilterra che chiede chiarezza.
E poi c’è il Nord-Irlanda, vera spina nel fianco della trattativa, materia che più di tutto ha fatto saltare il banco. Quel Nord Irlanda che vive in equilibrio su quel ponte tibetano fra Dublino, Belfast e Londra poco più di vent’anni dopo l’accordo del Venerdì Santo.
Sono trascorsi tre anni da quel giugno 2016, anzi, tre anni e mezzo ed è tutto da rifare.
Un Parlamento ingessato che vota oramai per coscienza dei singoli e su cui da tempo nessun esecutivo ha potuto fare affidamento. Perché qui il Parlamento è il vero comandante. Antico, fiero, sovrano.
E allora ci si riallaccia le cinture. Si riparte. Perché questi non sono tempi normali. E chissà se mai lo risaranno.
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