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    Il piano di Boris Johnson per un governo a sua immagine e somiglianza

    Boris Johnson. Credit: Ansa

    Il rimpasto di governo del premier britannico rappresenta un progetto di ulteriore accentramento del potere. L’abbandono del Cancelliere Javid, la conferma dei fedelissimi e l’eminenza grigia Dominic Cummings, il più ascoltato dei consiglieri del premier

    Di Maurizio Carta
    Pubblicato il 14 Feb. 2020 alle 07:59 Aggiornato il 14 Feb. 2020 alle 08:04

    Il Premier del Regno Unito, Boris Johnson, ha effettuato alla fine quello che oramai era nell’aria, il “reshuffle”, termine con il quale, da queste parti, viene chiamato il “rimpasto di governo”.

    Niente di eclatante, sino a quando non è arrivata la grande novità della giornata: le dimissioni di Sajid Javid come Cancelliere dello Scacchiere, più semplicemente, da Ministro dell’Economia. È la prima volta che succede che un Cancelliere dello Sacchiere si dimetta per disaccordo con il primo ministro dal 1989. Allora fu Nigel Lawson, e al governo c’erano sempre loro, i Conservatori.

    In realtà – secondo i  rumors – il primo ministro non ha puntato il dito contro Saijd Javid, additandogli qualche colpa in particolare o tacciandolo di incompetenza.

    Il tutto parte dalla volontà di Boris Johnson di volere personalizzare il ruolo che ha il Cancelliere, proponendo a Javid di mantenerlo al suo posto se però avesse accettato di cambiare la squadra dei suoi assistenti e fidati consiglieri. Boris Johnson intende infatti creare un team di stretta fedeltà che lavori ancora a più stretto contatto con il numero 10 di Downing Street.

    Il tutto fa parte di un più vasto progetto portato avanti dal più fedele uomo di Boris Johnson, il suo più fidato consigliere e stratega politico, nonché vera eminenza grigia dei corridoi di Whitehall. Trattasi di Domic Cummings, che punta a fare del governo Johnson un organo fortemente centralizzato nelle mani del Premier, con poco spazio discrezionale nelle varie ramificazioni dell’esecutivo.

    Dominic Cummings è lo stesso, per intenderci, che suggerì a Boris Johnson di sospendere il parlamento sino alla data della Brexit inizialmente prevista per ottobre, tanto da vanificarne il lavoro ed arrivare dritto alla data di uscita. Tentativo che non riuscì per intervento del potere giudiziario che ne autorizzò la ripresa dei lavori.

    La risposta di Javid – già ministro dell’Interno con il governo di Theresa May – è stata netta. Scegliendo il “no” ha rassegnato le dimissioni, aprendo le porte al successore Rishi Sunak, fedele di Boris Johnson con un passato in Goldman Sachs. Nei piani di Javid, mantenere i conti in ordine era una stella polare, confermata più di una volta dalle intenzioni di voler raggiungere il pareggio di bilancio nel 2023.

    Per Sunak la sfida è davvero notevole, dato che dovrà redarre il nuovo bilancio di previsione entro l’11 marzo.

    Saijd Javid ha avuto spesso delle opinioni discordanti con Boris Johnson, e con tale avvicendamento, adesso,  c’è qualcuno con esperienza politica e di governo limitata nel ministero che controlla i rubinetti della spesa pubblica.

    Da sempre, tale ministero ha mantenuto un certo grado di  indipendenza, chiaramente condividendo l’indirizzo politico con il Premier. Per tale ruolo, infatti, si è sempre cercato di portare al numero 11 di Downing Street, una figura con lo spessore e la personalità politica per “poter dire no”, se necessario, al vicino di casa che sta al numero 10.

    Un ministro forte, insomma, che vista la centralità di Johnson, fosse in grado di negare  il consenso in diverse iniziative mantenendo sempre un occhio attento sui conti.

    Solitamente, ovunque, i primi ministri procedono con un rimpasto quando la loro popolarità diminuisce e quando non riescono a controllare efficacemente il loro esecutivo .

    Per tale ragione, questo rimpasto può apparire insolito in quanto arriva solo due mesi dopo la formazione di un nuovo governo e per giunta da un primo ministro che gode di un ottimo livello di approvazione oltre che di una larghissima maggioranza parlamentare conquistata durante le elezioni di dicembre, in cui ha praticamente annientato il partito laburista.

    Il governo di Johnson nel luglio 2019 ha inviato un messaggio molto chiaro, ossia quello di arrivare alla Brexit, nominando quindi dei ministri con forti posizioni al riguardo.

    Boris Johnson, come detto prima, si trova di fronte a un partito e un paese molto diversi rispetto a luglio 2019, quando prese le redini del governo al posto di Theresa May.  Ha una grande maggioranza parlamentare e molto più unita, con meno divergenze al suo interno, frutto di un’attenta analisi dei candidati nelle varie circoscrizioni.

    Tale fattore gli consente di nominare ministri che gli sono “ideologicamente” più vicini senza preoccuparsi troppo di soddisfare le fazioni del partito, dove le correnti alternative hanno davvero poco spazio nella conformazione attuale.

    Inoltre, in termini di realtà politica, la formazione dei governi è da sempre una buona opportunità per premiare nel tempo la fedeltà di chi ha sempre sostenuto la fazione del presidente.

    Oltre ai pesi massimi  della corrente Johnson, sono rimasti in carica il Ministro del Commercio  Internazionale Liz Truss, quello dell’Istruzione Gavin Williamson e quello della salute Matt Hancock, fedelissimi di Boris Johnson e mai in disaccordo, quantomeno apertamente, con il Premier.

    Oppure, si potrebbe semplicemente pensare che sono stati tenuti al loro posto perché Johnson considera quei dicasteri meno decisivi oltre alle loro figure più gestibili.

    Cattiveria? Realtà politica? Cinismo? Questo non lo possiamo dire.

    “A pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca” diceva Giulio Andreotti, uno che la politica la conosceva bene.

    Ma questa, è tutta un’altra storia. Forse.

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