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    Bonjour Paresse

    Produci, consuma, crepa. Dall'animal laborans alla sindrome da burnout. Qualche consiglio per vivere meglio

    Di Carlos D'Ercole
    Pubblicato il 11 Feb. 2013 alle 13:26 Aggiornato il 12 Set. 2019 alle 00:41

    Bonjour Paresse

    Mi è capitato fra le mani nel fine settimana un libro intervista a Serge Latouche, “Fine Corsa” in cui il filosofo/economista torna sui suoi cavalli di battaglia: bisogna decrescere, arginare il consumismo, valorizzare il concetto di abbondanza frugale, ridiscutere l’utilitarismo imperante.

    Fra le varie riflessioni condivisibili, una in particolare merita di essere citata: “Se un marziano venisse a vedere come stiamo sulla Terra, si strabilierebbe dell’idiozia con cui sono organizzati gli umani: a fronte di milioni e milioni di disoccupati, ci sono milioni di donne e uomini che lavorano come pazzi. Fino a quindici ore al giorno. Una stupidità totale. Si deve lavorare meno, per lavorare tutti. Oggi tra l’altro più si lavora meno si guadagna perché si è intrappolati in una concorrenza spietata. Lavorando meno si guadagnerebbe di più e si vivrebbe meglio”.

    Il lavoro negli ultimi tempi è diventato totalizzante, consuma gran parte delle nostre giornate e si infila nel tempo libero appena abbassiamo la guardia.

    Per dirla con i francesi la vita si è ridotta alla triade “métro-boulot-dodo”.

    Hannah Arendt aveva già parlato della recente trasformazione dell’uomo in “animal laborans” mentre Carmelo Bene invitava tutti a disoccuparsi perché “l’uomo non è nato per lavorare. Non è nato per essere occupato. È nato per niente. In balìa dell’esistenza senza scopo. Il lavoro è propinato per questo. Altrimenti tutti si ammazzerebbero”.

    Il dibattito è stato di recente arricchito da un filosofo coreano, Byung-Chul Ha il quale sostiene che non siamo tanto schiavi del lavoro, quanto dalla nostra continua ansia da performance.

    “La società del XXI secolo non è più la società disciplinare ma è una società della prestazione. Il soggetto di prestazione è libero dall’istanza esterna di dominio che lo costringerebbe a svolgere un lavoro o semplicemente lo sfrutterebbe. È lui il signore e sovrano di se stesso. Egli dunque non è sottomesso ad alcuno se non a se stesso. In ciò si distingue dal soggetto d’obbedienza. Il venir meno dell’istanza di dominio non conduce però alla libertà. Fa sì semmai che libertà e costrizione coincidano. Così il soggetto di prestazione si abbandona alla libertà costrittiva o alla libera costrizione volta a massimizzare la prestazione. L’eccesso di lavoro e di prestazione aumenta fino all’auto-sfruttamento” ( in “La società della stanchezza”, Nottetempo).

    Fare, performare, massimizzare, investire. Sono i “mantra” negativi degli ultimi anni che hanno perfino invaso la sfera dei sentimenti e rischiano di condurci alla depressione, al burnout.

    Forse è tempo di decelerare e invocare quello che Paul Lafargue, genero di Karl Marx, chiamava il diritto alla pigrizia.

    Bonjour Paresse.

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