Una commissione istituita dal governo della Birmania sostiene che non ci siano prove di genocidio contro la minoranza musulmana dei rohingya.
Nella sua relazione, la commissione ha inoltre sostenuto che non vi erano prove sufficienti per sostenere le diffuse accuse di stupro.
Sono numerose le accuse di abusi ai danni dei rohingya, in particolar modo dal mese di ottobre 2016, quando è stata avviata una massiccia campagna militare per reprimere l’insurrezione della minoranza nello stato di Rakhine.
I rohingya sono considerati una delle minoranze più perseguitate al mondo. Si tratta di un gruppo etnico musulmano che vive principalmente nel nordovest della Birmania, nello stato di Rakhine, uno dei più poveri della regione, che conta circa un milione di abitanti rohingya su una popolazione di tre milioni di persone, a maggioranza buddista.
Circa 140mila rohingya del Rakhine vivono in campi-ghetto, che non possono lasciare senza il permesso del governo. Per ottenere la cittadinanza, devono dimostrare di aver vissuto in Birmania da almeno 60 anni, pratica pressoché impossibile.
Si definiscono discendenti di mercanti arabi, mentre per il governo birmano sono soltanto immigrati bengalesi che vivono illegalmente all’interno del paese. Di conseguenza, i loro diritti allo studio, al lavoro, ai viaggi e alla libertà di praticare la propria religione e di accedere ai servizi sanitari di base sono limitati.
Il governo birmano non ha incluso i rohingya nella lista dei 135 gruppi etnici ufficiale del paese e a loro è negata la cittadinanza. Ciò li rende apolidi a tutti gli effetti.
La comunità internazionale ha fortemente criticato il governo di Aung San Suu Kyi, definendo quella in corso una vera e propria pulizia etnica.
La commissione, istituita dal governo del Myanmar e guidata da un ex generale, Myint Swe, rilascerà la sua relazione definitiva alla fine di gennaio 2017.
Nella relazione intermedia vengono però respinte le accuse di genocidio sulla base del fatto che molti rohingya vivono ancora nello stato di Rakhine, dove gli edifici islamici non sono stati distrutti, così come vengono respinte le accuse di stupri, per mancanza di prove sufficienti.
La commissione sta ancora indagando sugli arresti arbitrari, sugli incendi dolosi e le torture.
La commissione non ha fatto però menzione della questione più grave, l’accusa contro le forze di sicurezza birmane di aver ucciso i civili come punizione collettiva in risposta agli attacchi da parte dei militanti rohingya.
Alcuni giorni fa, quattro poliziotti sono stati arrestati dopo la diffusione di un video che mostra alcuni agenti picchiare con violenza alcuni rohingya nel corso di un’operazione delle forze di sicurezza avvenuta nel novembre 2016.
La persecuzione contro i rohingya affonda le radici nella seconda metà del ventesimo secolo. Il primo grande esodo si verificò nel 1970, quando 250mila rohingya furono costretti ad abbandonare le propre case dall’esercito birmano, per trovare rifugio in Bangladesh.
Nel maggio del 2015 sono state scoperte decine di fosse comuni in Thailandia e in Malesia, con i resti di centinaia di rohingya, morti dopo essere stati picchiati o abbandonati in mare dai trafficanti di esseri umani.
Nell’aprile del 2013 Human Rights Watch ha denunciato che il governo birmano stava conducendo una campagna di pulizia etnica contro i rohingya, ma l’accusa è stata prontamente respinta dall’allora presidente Thein Sein come “campagna diffamatoria”.