Funzionari della Birmania e del Bangladesh si sono incontrati lunedì 15 gennaio 2018 a Naypytaw, capitale della Birmania, per discutere l’accordo firmato dai due stati il 23 novembre 2017.
Questa notizia puoi leggerla direttamente sul tuo Messenger di Facebook. Ecco come
Il patto prevede il rimpatrio volontario in Birmania dei rohingya che hanno trovato asilo in Bangladesh dopo essere fuggiti dalle violenze dell’esercito birmano nello stato di Rakhine.
I profughi saranno ospitati temporaneamente in un campo attualmente in costruzione a Hla Po Khang, per essere poi rimpatriati dopo qualche mese nel luogo d’origine o in una località vicina.
Secondo il Global New Light of Myanmar, giornale pubblicato dal Ministero dell’Informazione birmano, il campo sarà costituito da 625 strutture distribuite su un territorio di circa cinquanta ettari.
Leggi anche: L’esercito birmano ha ammesso per la prima volta di aver ucciso alcuni militanti rohingya
I funzionari birmani hanno dichiarato a Reuters che, sulla base di un precedente accordo stretto tra i due paesi negli anni ’90, potrà tornare solo chi possiede documenti d’identificazione. La Birmania inoltre concederà la cittadinanza a chiunque tra loro riesca a dimostrare che i suoi antenati vivevano in Birmania.
Il governo birmano si era fino ad ora sempre rifiutato di concedere la cittadinanza ai rohingya, considerandoli non una minoranza religiosa bensì un gruppo etnico immigrato clandestinamente dal Bangladesh.
Meenakshi Ganguly, responsabile dell’Asia del Sud presso Human Rights Watch, ha detto a Newsweek che un rientro volontario e in sicurezza dei rifugiati rohingya non è pensabile a meno che la Birmania non garantisca un pieno risarcimento a chi ha perso la casa a causa del conflitto tra militanti ed esercito e, soprattutto, la persecuzione dei responsabili delle atrocità compiute ai loro danni.
Leggi anche: SPECIALE: la crisi dei rohingya in Birmania
Dal 25 agosto 2017, infatti, l’esercito birmano ha attuato una violenta controffensiva agli attacchi dei militanti rohingya contro alcuni avamposti di polizia.
Questa “pulizia etnica”, come l’ha definita l’ONU, ha causato l’esodo di quasi 650mila rohingya nel vicino Bangladesh. Al momento i numeri sono calati, ma l’esodo non si è ancora fermato.
I tentativi di approfondire la questione risultano fortemente ostacolati dalle autorità birmane: Yanghee Lee, investigatrice sui diritti umani per le Nazioni Uniti, è stata bandita dallo stato nel dicembre 2017, e i due giornalisti di Reuters Wa Lone e Kyaw Soe Oo, impegnati in ricerche sullo stato di Rakhine, sono sotto accusa.
L’Onu e Human Rights Watch chiedono maggiore trasparenza sull’accordo, in modo che sia assicurata la volontarietà del rientro dei rohingya. Questi potrebbero infatti non voler tornare se lo stato non garantirà loro il pieno riconoscimento dei diritti in quanto cittadini.
Leggi l'articolo originale su TPI.it