“Conosce Vladimir Putin. Crede che sia un killer?”. “Lo credo”. Era il 17 marzo e a domanda diretta del giornalista della rete televisiva ABC, George Stephanopoulos, il presidente americano Joe Biden mostrava al mondo un cambio di passo nelle relazioni tra Mosca e Washington. Se Donald Trump ci aveva abituato a un linguaggio spregiudicato e talvolta offensivo nei riguardi di leader, categorie sociali e donne, Biden ha dato il via alla vera rivoluzione dei rapporti diplomatici.
L’attacco di Biden avviene mediante una intervista sapientemente realizzata non in diritta, la cosa implica in qualche modo un accordo con la testata e con il giornalista: una piccola sceneggiata ordita perché Biden voleva quella domanda, l’aveva concordata, il giornalista l’ha fatta, Biden si è preparato il mugugno di assenso.
Dare dell’assassino al presidente di un Paese non è banale, è una dichiarazione di guerra, è un’umiliazione, un’offesa, una mancanza di stima. È, in definitiva, una scelta strategica. Ma perché Biden ha scelto di essere così poco diplomatico? Non si tratta soltanto di una presa di posizione nell’ambito della missione di rendere l’America great again come faro del mondo libero. È un segnale agli alleati, a quei pezzi di Europa che continuano a flirtare con Mosca. Ma innanzitutto è un segnale di solidarietà all’opposizione russa, di una forza come non si era vista da decenni. La strada scelta per comunicare questa strategia è chiara: non una singola dichiarazione, ma un’intervista andata in onda e visibile da milioni di telespettatori.
Il ragionamento ci porta dritti al caso diplomatico che nelle ultime ore ha letteralmente sconvolto le relazioni tra Italia e Turchia. “Con i dittatori bisogna essere franchi, ma cooperare”. Queste le parole usate giovedì dal presidente del Consiglio, Mario Draghi, per riferirsi al presidente turco Erdogan. È la prima volta che il leader di un Paese occidentale – membro della Nato come la Turchia – definisce “dittatore” il numero uno di Ankara. Inevitabile l’apertura di un incidente diplomatico, al punto che la Turchia ha convocato l’ambasciatore italiano per avere spiegazioni.
Draghi ha decisamente abdicato al politically correct imperante e ha definito il presidente turco senza giri di parole. Come sottolinea InsideOver, sul fronte europeo, è chiaro che Draghi abbia voluto inviare un segnale. Mentre l’Ue si è dimostrata impacciata e rigida nei confronti del presidente turco, e mentre Angela Merkel ed Emmanuel Macron non hanno manifestato in modo netto la loro distanza da quanto avvenuto ad Ankara per il famoso “Sofa-gate”, Draghi ha fatto capire di poter essere un elemento molto più importante nelle gerarchie europee.
Eppure, tra il presidente francese e quello turco in passato ci sono state ben più che piccole schermaglie. Espressioni pesanti che a fine 2020 hanno fatto temere per la tenuta degli equilibri tra i due Paesi. Erdogan attaccava Macron, invitando a boicottare i prodotti francesi e denunciava “l’islamofobia” come una “peste dei Paesi europei”, aggiungendo che “contro i musulmani si sta compiendo una campagna di linciaggio simile a quella contro gli ebrei prima della Seconda Guerra Mondiale”. Erdogan non è nuovo ad attacchi offensivi contro Macron e ha sfruttato per motivi di propaganda perfino la decapitazione di un professore francese che a scuola aveva mostrato le vignette su Maometto di Charlie Hebdo. Dopo il richiamo dell’ambasciatore di Parigi ad Ankara, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan era tornato alla carica riaffermando che il suo omologo francese ha bisogno di sottoporsi ad “esami mentali”. Parole pesanti che oggi tornano come monito.
Cosa dobbiamo aspettarci per il prossimo futuro? Come ha provocatoriamente chiesto il portavoce di Amnesty International Riccardo Noury: “A quando una domanda sul presidente egiziano Al Sisi?”. La questione non è da poco: se Draghi ha sdoganato in Italia la possibilità di chiamare le cose con il proprio nome, perché non applichiamo questa sorta di “revisionismo storico” a tutti i potenti con i quali ancora siamo chiamati a dialogare? Certo un elemento non va dimenticato: se la dialettica della diplomazia può aver avuto un’evoluzione, resta il nodo della real politik e di ciò che resta nonostante epiteti e definizioni dichiarate dagli scranni. Erdogan è un dittatore, un dittatore necessario se non utile all’Europa per il vasto e complesso tema dei flussi migratori. E questo resterà, nonostante tutto.
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