Il 5 gennaio 2006 Bant Singh, un operaio agricolo della casta dei dalit (degli oppressi) e attivista nel villaggio Jhabar, nello stato indiano del Punjab, venne brutalmente aggredito e picchiato da uomini armati con spranghe di ferro e asce appartenenti alla casta superiore Jat.
Il dalit perse entrambe le braccia e le gambe durante l’efferato attacco inflitto come punizione, poiché si era opposto a una casta superiore combattendo in nome della giustizia, nel tentativo di dare un nome e un volto agli uomini che violentarono sua figlia.
Ora un nuovo libro intitolato The ballad of Bant Singh racconta l’incredibile storia del dalit che perse i suoi arti per difendere con coraggio e forza l’ideale della giustizia.
(Qui sotto Bant Singh su una sedia a rotelle)
La storia, la voglia di giustizia e la rinascita di un dalit
Bant Singh si muove su una sedia rotelle, impegnato a rilasciare interviste in occasione della presentazione del suo libro. Accanto a lui appare una ragazza, alta, slanciata e attraente. Si chiama Baljit Kaur, è sua figlia.
Il 6 luglio del 2002, la giovane donna allora appena adolescente venne accerchiata da un gruppo di uomini che, a turno, la stuprarono. Una volta rientrata a casa, la ragazza non nascose quanto accaduto alla famiglia. “Fu in quel momento che insieme a mio padre, iniziammo a condurre una lotta per chiedere giustizia”, ha raccontato Baljit a un quotidiano locale indiano.
Per quattro anni, Bant Singh e sua figlia chiesero a gran voce giustizia. L’uomo rappresentò il raro caso in cui un dalit appartenente a una casta inferiore (un intoccabile) riuscì a far condannare i colpevoli all’ergastolo.
Ma quest’azione condannò per sempre lui e la sua famiglia, costretti a pagare un prezzo altissimo.
“Un lavoratore dalit non ha né soldi né influenza. Tutto quello che possiede è il proprio corpo che deve usare per guadagnarsi da vivere. Lo stesso vale per una donna dalit. Il suo corpo può essere facilmente visto come un oggetto, quindi se ne può abusare senza porsi alcun problema”, ha raccontato Bant.
Il suo di corpo è stato spezzato e ridotto a un solo arto funzionante, ma la sua forza di vivere non l’ha mai abbandonato. Nonostante l’uomo dovette trascorrere lungo tempo in terapia intensiva, a causa delle profonde ferite riportate, non lasciò mai la lotta per la giustizia.
Il primo passo in questa direzione fu quello di appellarsi alle autorità di polizia affinché conducessero un’azione più severa contro i colpevoli.
I giornali locali non hanno mai parlato della vicenda di Bant Singh. “Dopo l’attacco subito, abbiamo contattato i media”, ha raccontato un amico dell’uomo. “Nessuno ha mai fatto cenno al pestaggio di un dalit. Solo quando le sue membra sono state amputate come punizione, i giornalisti ne hanno parlato”.
Ma la vicenda di Bant non è passata inosservata, provocando indignazione fra gli abitanti del villaggio e la presa di coscienza collettiva. Il dalit che ha combattuto gli uomini jat era diventato il simbolo della resistenza degli oppressi nel Punjab.
I suoi sostenitori iniziarono a moltiplicarsi anche altrove. Ma a salvare la vita di Bant è stato il suo stesso spirito di sopravvivenza. Il diciottesimo giorno dopo l’amputazione, nonostante le sue condizioni fisiche fossero sempre gravi, l’uomo sorprese i medici e gli altri pazienti dell’ospedale intonando dal suo capezzale alcune canzoni della setta religiosa degli Udasi.
I suoi canti di giustizia sono di fatto diventati le voci degli oppressi e della lotta di classe. Oggi la sua musica ha raggiunto in lungo e in largo diverse parti dell’India, ispirando decine di oppressi.
(Qui sotto Bang Singh racconta la sua storia)