Arrivano con i cartelloni in una mano e la bandiera del Bangladesh nell’altra. Hanno tra i quattordici e i venticinque anni, sorridono e si abbracciano tra di loro.
Si conoscono tutti, gli studenti del Bangladesh che vivono a Roma e che si sono ritrovati in piazza Santi Apostoli in un caldo pomeriggio di agosto per solidarizzare con le proteste degli studenti a Dacca.
Ad accomunare tutti una maglietta bianca, l’accento romano e lo spirito di appartenenza a un Paese a settemila chilometri a est di Roma.
Si sono organizzati sui social network e hanno deciso di manifestare anche qui. “Abbiamo visto i live su Facebook dei nostri amici a Dacca, non potevamo stare fermi”. Così ci dice Tata, 31 anni, la più grande del gruppo.
“Loro sono tutti studenti, hanno poco più di venti anni. Sono qui anche per controllare che non succeda nulla”, continua. Si avvicina al gruppuscolo di magliette bianche che continua imperterrito a scrivere striscioni e cartelloni in bangla – la lingua dei bengalesi, il simbolo di appartenenza più forte della comunità – e ripete energica che questa non è una manifestazione politica.
“Chiunque vi chieda di parlare di politica, dite che siamo qui solo per solidarizzare con i nostri fratelli a Dacca. Siamo qui per chiedere giustizia, siamo qui per chiedere strade più sicure”, continua Tata guardando negli occhi uno per uno i ragazzi arrivati da ogni parte di Roma, da Tor Pignattara a Garbatella, per partecipare alla manifestazione.
Una cinquantina di persone in tutto: “Dovevamo essere molti di più, almeno un centinaio, ma tanti di noi lavorano a quest’ora e non riescono a spostarsi al centro di Roma”, ci dice Moin.
Ha 21 anni, fa il consulente informatico a Pomezia, ma vive a Ostia da quando ne aveva otto. “A Ostia ci sono solo tre ragazzi bengalesi, ma qui in centro a Roma la comunità è grande”. Suo padre lavora a Londra, lui ha scelto di restare qua.
Con un’inflessione romana, spiega le ragioni della sua partecipazione alla manifestazione: “Se fossi stato a Dacca, sarei sceso in strada con gli altri studenti. È un Paese in preda al caos, quella non è più democrazia”.
Il 29 luglio scorso, due studenti sono stati uccisi a Dacca, investiti da un autobus in corsa. Diya Mim e Karim Abdul avevano 17 e 18 anni e sono stati travolti e uccisi da un bus guidato da un autista senza patente.
Alla base delle proteste scoppiate nel Paese, proprio queste due morti innocenti. È l’ennesimo episodio.
L’autobus stava “gareggiando” con un altro mezzo per accaparrarsi le persone in attesa alla fermata e ha falciato i due adolescenti.
All’ordine del giorno, in un Paese in cui esiste la competizione tra società private per il servizio dei bus. Una tragedia silenziosa, quella delle vittime degli autobus, che conta migliaia di morti ogni anno per incidenti stradali: oltre 7mila in Bangladesh, secondo le stime, di cui 4mila sono pedoni.
Gli autobus impazziti che tagliano le strade sono un problema serio in uno dei Paesi più popolosi al mondo.
In Bangladesh il servizio dei trasporti è in mano ai privati: “Questo genera una competizione assurda: gli autisti fanno delle vere e proprie gare in strada pur di raccattare un cliente in più, mettendo a rischio continuamente la vita dei cittadini”, continua Moin. “Uno di quei due ragazzi sarei potuto essere io, per questo è importante essere qui oggi”.
Autisti senza patente, veicoli non registrati e autobus che corrono oltre i limiti. A questo si aggiunge la corruzione della polizia e il controllo del traffico pressoché inesistente. Quella di mettersi al volante anche senza aver mai preso la patente è ormai una prassi consolidata nel Paese.
I ragazzi che protestano per le strade di Dacca fermano gli automobilisti per assicurarsi che siano in possesso della patente e del libretto dell’auto.
Gli ultimi dati disponibili parlano di un Paese ai limiti del collasso, con un tasso di mortalità legata agli incidenti stradali del 12,8 per cento rispetto al totale degli incidenti stradali. I più esposti, ovviamente, sono i pedoni, con quasi il 54 per cento dei decessi, poi chi viaggia in auto (circa il 26 per cento), motociclisti e scooteristi l’8,2 per cento.
E infatti la gente muore a Dacca per l’assenza totale di sicurezza stradale. Sui cartelli dei giovani bengalesi romani campeggiano slogan in cui si chiede l’incolumità dei cittadini in strada. “We want justice, we want safe roads“. Chiedono giustizia, chiedono strade sicure, gli studenti che gridano a Dacca da piazza Santi Apostoli.
Al bianco delle magliette si mischiano il verde e il rosso della bandiera del Bangladesh che con fierezza stringono in mano. Qualcuno la usa come bandana, quasi tutti la portano stampata sui cartelloni che sventolano in aria.
Solo un paio gli adulti in piazza Santi Apostoli. Lui aiuta i ragazzi più giovani a scrivere correttamente gli slogan in bangla, lei è avvolta in un velo chiaro che le copre i capelli e sorride.
Non parlano bene l’italiano e a fare da mediatore culturale è la piccolissima Hoi. Ha poco più di sei anni, un sorriso bianco e una dizione perfetta: “Anche gli adulti vogliono più sicurezza. Loro sono qui perché quello che è successo a quei due ragazzi potrebbe succedere anche ai loro figli, hanno scelto di esserci e di dimostrare solidarietà a chi protesta a Dacca”.
Tata ci spiega ancora che tanti ragazzi non hanno preso parte alla manifestazione romana perché i loro genitori pensano che questo sia un modo per schierarsi contro il governo: “La vedono come una presa di posizione politica”.
“Qualcuno ha anche paura di ripercussioni qui – aggiunge Moin – gli esponenti politici di quei partiti sono anche a Roma e qualcuno pensa che potrebbero farla pagare anche a loro, se scendono in piazza e si schierano dalla parte di chi protesta in Bangladesh”.
Ma la politica, quella dei partiti, deve restare fuori dalla manifestazione di piazza Santi Apostoli, sottolinea con forza Shila, poco più che ventenne, tra le organizzatrici dell’evento. “Lo abbiamo chiamato We want justice proprio perché non c’è nessun colore politico qua”. ”
“Loro sono scesi in piazza per lottare per i diritti di tutti, noi siamo qua per lo stesso motivo. Vogliamo solo giustizia per quelle morti innocenti e per quelle che ci saranno se le cose in Bangladesh non cambiano in fatto di sicurezza stradale”, continua Shila.
Le manifestazioni in strada a Dacca, dopo la morte dei due studenti a fine luglio, hanno assunto i contorni della protesta politica. Come ci spiega ancora Moin, giovani e giovanissimi sono scesi in piazza e di fronte si sono trovati gli “antagonisti”.
“È la Chattro League, gruppo politico vicino al governo. I membri di questo partito si scagliano contro chi non la pensa come loro, li picchiano per strada. È un po’ come è successo ai tempi di Mussolin: se dimostri di non essere dei loro, finisci nei guai, sparisci”, aggiunge. “Ormai il Paese è in preda alla dittatura: quella non può essere considerata una democrazia”.
“Si sono presentati in borghese a casa di un famoso attivista e fotografo, Shahidul Alam. Lo hanno prima pestato a sangue, poi gli hanno pulito i vestiti e l’hanno fatto vestire di nuovo. Gli hanno messo le manette e lo hanno portato via. Perché? Per aver criticato il governo per la gestione delle proteste”, ha detto ancora Moin.
L’uomo è stato fermato domenica 5 agosto, dopo un’intervista televisiva in cui aveva criticato il primo ministro del Bangladesh Sheikh Hasina: secondo Shahidul Alam, non ha credibilità e sta usando la forza per aggrapparsi al potere.
E, infatti, le proteste dei liceali – a cui poi si sono aggiunti studenti universitari e lavoratori – hanno visto la forte opposizione della polizia, che non ha esitato a usare la forza contro di loro.
Gas lacrimogeni e proiettili di gomma: così la polizia si è mossa durante i giorni infuocati di manifestazioni per disperdere le centinaia di studenti liceali scesi in piazza.
Il governo oggi ha accettato richieste degli studenti, ma solo dopo nove lunghi giorni di proteste e sngue. Ora il Governo del Bangladesh si prepara a emanare una legge che istituisce la pena capitale per chi provoca incidenti mortali.
Il Ministro della giustizia Anisul Hu ha dichiarato, però, che la pena di morte sarà presa in considerazione solo “quando l’indagine dimostrerà che il decesso nell’incidente automobilistico è stata causato deliberatamente”.
Intanto altre otto persone rimaste uccise durante le manifestazioni: “Non è possibile che gli studenti scendano in piazza per chiedere semplicemente giustizia e, soprattutto, di poter camminare in strada senza rischiare la vita, e vengano trattati in quel modo dalla polizia”, ci dice una giovanissima studentessa che brandisce uno striscione con su scritto We want a safe future.
Questo chiedono, da Roma a Dacca: un futuro sicuro, per tutti.
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