Questa volta, il Califfo se l’è proprio andata a cercare: un suo soldato, arruolato magari a cose fatte sul campo del terrore, aveva appena compiuto la strage di Manchester che scriba della Nato e sherpa del G7 avevano già messo mano alle loro dichiarazioni pre-confezionate contro il terrorismo e il fanatismo per renderle più attuali e più puntute.
Quando al-Baghdadi sentirà, se mai le sentirà, le dichiarazioni dei leader a Bruxelles e a Taormina, quando leggerà i loro documenti, capirà che ha veramente passato il segno: prendersela con bambini, con ragazzine, con famigliole andate gioiose a sentire una cantante pure anti-Trump gli ha scatenato contro una tempesta di parole peggio del solito.
In realtà, le dichiarazioni dei leader, rituali e spesso non in sintonia con i fatti, come anche il ricorso agli strumenti classici nella guerra al sedicente Stato islamico – attacchi a Mosul e bombardamenti su Raqqa – appaiono strumenti non efficaci né radicali nell’immediato, ma scontati e quasi obbligati. Smantellata e pressoché neutralizzata una rete terroristica (al-Qaeda) un’altra ne nasce dalle ceneri, perché l’incendio s’alimenta nel fanatismo religioso, nella frustrazione sociale, nella sete di rivincita atavica.
Il cabotaggio tra i monoteismi intrapreso dal presidente statunitense Donald Trump, dalla culla dell’Islam alla Terra Promessa alla capitale della Cristianità, non pare foriero di passi avanti decisivi. Quella glaciale platea arabo-sunnita che ha ascoltato a Riad il discorso di Trump ha potuto trarne due messaggi: liberi di fare quello che vogliamo a casa nostra, al diavolo i diritti dell’uomo e il rispetto delle donne, ché questo presidente non ce ne chiede conto; e liberi di arginare, financo combattere l’Iran sciita.
In cambio, l’impegno a combattere contro il terrorismo, che non si nega mai a nessuno, specie quando con questa scusa puoi meglio reprimere in patria i tuoi avversari – l’esempio turco dell’autoritario Erdogan vale per tutti, se monarchi ed emiri sauditi avessero mai bisogno d’esempi in materia. E che non esime dal sostenere e foraggiare i movimenti sunniti, se c’è da farlo in Iraq e in Siria.
Venendo da Israele, il presidente Trump è sceso a Roma 18 ore dopo che gli avvoltoi del terrorismo erano tornati a volare in larghi giri sull’Europa. La zaffata di paura giunta da Manchester è divenuta lutto e solidarietà: spento il Colosseo, come a Parigi la Torre Eiffel. La lotta al terrorismo è il filo d’Arianna di questa prima missione all’estero del presidente Usa, zeppa di contraddizioni come spesso azioni e scelte della sua amministrazione.
Dopo avere seminato zizzania fra i musulmani e generiche speranze – e reciproche delusioni – tra israeliani e palestinesi, Trump intende sollecitare un maggiore coinvolgimento degli alleati europei nei conflitti contro il sedicente Stato islamico e nel contrasto alle sue cellule nei nostri Paesi.
Il braccio di ferro presunto sul 2 per cento del Pil da spendere per la difesa è un ‘fare ammoina’, un agire con confusione, perché l’impegno quasi mai rispettato è già contenuto in decine di documenti dell’Alleanza, da ultimo nei titoli di coda del Vertice di Cardiff, con la regia di Obama.
Da Bruxelles Trump tornerà in Italia e andrà direttamente a Taormina per il G7: su economia, commercio, clima, sarà più una manfrina che un confronto, perché nessuno vuole rompere e perché gli americani hanno già messo le mani avanti – la nuova Amministrazione non ha ancora perfezionato le posizioni sulla libertà degli scambi e sul rispetto, o meno, dell’accordo di Parigi.
Se il magnate presidente non s’inventa un numero, alla Nato e al G7 finirà tutto a tarallucci e vino. Ma le dichiarazioni contro il terrorismo saranno vibranti: il Califfo è avvertito, mentre, incuranti e magari ignari, i suoi aspiranti soldati postumi s’apprestano a colpire ancora.
*Giampiero Gramaglia è giornalista e consigliere IAI. Il suo account Twitter è @ggramaglia
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