Un’unica lunga catena si snoda dai tragici giorni di Charlie Hebdo alla notte del 13 novembre. Una catena di errori, di manchevolezze, di reciproche sordità, culminata con il terribile pantano siriano, forse la più plastica allegoria dell’incapacità dei grandi attori mondiali di condividere una strategia unitaria.
Il risultato è sotto i nostri occhi: a sud della ricca e distratta Europa fiammeggia (con l’eccezione della sola Tunisia) il cimitero delle primavere arabe, primo grande abbaglio dell’occidente, che credeva che la rimozione dei satrapi mediorientali e africani portasse alla nascita di una diffusa democrazia araba.
Il secondo errore è stato quello di trascurare l’evidenza con cui in un solo anno quello che appariva come un manipolo di radicali islamici che proclamavano la rinascita del Califfato è diventato un’entità incontrollabile – se pure forte di una milizia non invincibile né affatto numerosa –, in grado di dilagare dalla Siria all’Iraq alla Libia.
Il terzo imperdonabile errore, e qui sono coinvolti tutti quanti, è stato quello di anteporre gli interessi e gli egoismi nazionali a una strategia condivisa che fin dall’inizio sarebbe stata necessaria. Non c’è stata alcuna “Coalition of the Willing” a contrastare l’Isis, perché ciascuno ha perseguito i propri scopi, molto spesso in conflitto fra loro.
Così hanno fatto due dei grandi player.
Lo ha fatto la Turchia, armando più o meno occultamente le milizie del Califfato in funzione anti-siriana e colpendo con maggior vigore le milizie curde, vera spina nel fianco del presidente Erdogan, che sulla paura dell’irredentismo del Pkk ha impostato le sue recenti vittoriose elezioni politiche.
E lo ha fatto la Russia, entrata in scena con l’intervento armato in Siria a sostegno del presidente Assad, e solo formalmente in funzione anti-Isis, dando vita a un’inaspettata alleanza filo-sciita che allinea oltre al regime di Damasco l’Iran e gli Hezbollah libanesi, ove lo scopo principale di Putin rimane quello di assicurarsi uno sbocco permanente sul Mediterraneo e di ripristinare l’influenza regionale che Mosca aveva perduto fin dai primi anni Novanta.
Certo, la tenaglia fra i raid condotti da Washington e le incursioni dei cacciabombardieri di Mosca – centinaia di attacchi contro basi, insediamenti e roccheforti dei jihadisti – ha mostrato qualche successo e probabilmente gli attentati di Parigi sono la dimostrazione che l’unica vera arma di cui il Califfato dispone è quella del terrorismo.
Un’arma dispiegata con quasi simultanea efficacia nell’arco di quindici giorni, dall’abbattimento dell’aereo di linea russo decollato da Sharm el-Sheik al doppio attentato kamikaze nei quartieri hezbollah a Beirut Sud, fino alla tragica notte di Parigi.
Denominatore comune (perché i jihadisti un denominatore comune ce l’hanno), attaccare l’Occidente, la Russia, la Turchia, l’Egitto, l’alleanza sciita con sede a Baghdad.
Tanto da aver pericolosamente riavvicinato i jihadisti del successore di Osama Binladen, il qaedista al-Zawahiri, a quelli di al-Baghdadi, guida suprema dell’Isis, in una sorta di Santa Alleanza. Quella, per intenderci, che l’Occidente, Mosca, Ankara e il neopromosso Iran sulla scena diplomatica non hanno saputo e voluto costruire.
Ma sarebbe un errore circoscrivere la minaccia del Califfato al solo Medio Oriente. La Francia, è noto, è una attivissima fabbrica di jihadisti, l’Europa stessa pullula di veterani che hanno combattuto in Iraq, in Afghanistan, in Siria.
Non basta eliminare con un drone Jihadi John, il tagliatore di teste inglese di origine kuwaitiana, per indurre migliaia di potenziali foreign fighters a rinunciare. Né possiamo incolpare i servizi segreti francesi di inefficienza: come quelli britannici, conoscevano e segnalavano il pericolo, consapevoli tuttavia che l’asimmetria stessa di questi attentati, l’impiego deliberato di jihadisti non residenti – dunque meno visibili in caso di controlli alle frontiere – avrebbero enormemente facilitato il compito del commando terrorista.
Ora però – dopo Siria e Iraq – si è aperto ufficialmente un secondo fronte di guerra, l’Europa. Lo era già, in realtà, forse da quando venne assassinato ad Amsterdam Theo Van Gogh.
Ma allora come oggi si è fatto finta di non capire, così come si è sistematicamente cercato di ignorare la portata della minaccia jihadista nell’illusione che il Vecchio continente ne fosse sostanzialmente immune, che la Fortezza Europa – che nel frattempo si stava disgregando in cento inutili vertici sull’immigrazione dai quali trasparivano soltanto la discordia e gli egoismi nazionali – potesse evitare di sporcarsi le mani con la guerra siriana e con il Califfato, delegando il compito al suo antico protettore, gli Stati Uniti.
Un’eccezione a dire il vero c’è stata: la Francia, che è intervenuta in proprio nella regione.
La rappresaglia dell’Isis è tragicamente sotto il nostro sguardo. E l’unica vera domanda, al momento senza una risposta soddisfacente, è quella che in queste ore rimbalza frenetica in tutte le cancellerie: è il titolo di un libro pubblicato con ben altri intendimenti da Lenin nel 1902, ma che vale più che mai oggi. Che fare?
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