Quando l’ex banchiere centrale argentino Luis Caputo, tra i più vicini consiglieri economici del neo presidente Javier Milei, ha incontrato il 24 novembre un gruppo di rappresentanti delle banche locali e internazionali ha dovuto rassicurare i presenti: «Non ci saranno follie».
Eppure le promesse elettorali del nuovo leader argentino, che giurerà il prossimo 10 dicembre, minacciano ben altro: liberalizzare il porto d’armi, tagliare i programmi di assistenza sociale, liquidare il Banco Central de la República Argentina e, addirittura, considerare la vendita degli organi come un qualsiasi «altro mercato». Posizioni estreme, ma che non sorprendono da un uomo che qualche anno fa si esibì a un evento di cosplayer a Buenos Aires come “El General AnCap”, un supereroe da lui stesso inventato: «Vengo da Liberlandia. La mia missione è prendere a calci nel culo i keynesiani e i collettivisti figli di puttana».
La grande sfida
Tuttavia, incontrando i rappresentanti delle banche, Caputo, ex ministro delle Finanze del governo Macri e per mesi candidato in pectore alla medesima carica nella prossima amministrazione Milei, ha assicurato che la roadmap economica del nuovo esecutivo è «ortodossa». Rassicurazioni che devono aver funzionato a giudicare dai corsi borsistici, visto il rialzo delle quotazioni azionarie e obbligazionarie argentine nelle ultime due settimane di novembre.
Il programma economico del nuovo presidente sembra però tutt’altro che ortodosso. L’economista, deputato dal 2021 e vincitore delle presidenziali contro l’ormai quasi ex ministro dell’Economia Sergio Massa, propone una «riforma globale», a partire dalle istituzioni. D’altronde, come disse in un’intervista televisiva nel 2018: «Il nostro vero nemico è lo Stato. È il pedofilo dentro l’asilo con i bambini incatenati».
In primis vuole «liquidare» la Banca centrale e «dollarizzare» il Paese, mettendo fuori corso la valuta locale e utilizzando soltanto la moneta statunitense. Inoltre, intende mettere fine «entro tre mesi» al controllo sui cambi, che limita la compravendita di valuta estera. Quindi vuole ridurre la spesa pubblica fino al 15 per cento del Pil, tagliare il numero dei ministeri da 18 a 8 e abolire «progressivamente» i programmi di assistenza sociale, pensionistici e previdenziali. Arrivando a privatizzare la compagnia petrolifera nazionale Ypf, le emittenti radiotelevisive pubbliche, ma non l’istruzione e la sanità, non ancora almeno e non completamente. Tutto questo in un Paese in cui quasi il 40 per cento degli oltre 45 milioni di abitanti vive in povertà, mentre l’inflazione annua ha superato il 140 per cento a ottobre.
Ma è proprio per questo che vuole abbandonare il peso. Il Paese, secondo Milei, è «incapace di avere una moneta propria» mentre l’emissione di banconote da parte della Banca centrale argentina è una «rapina» ai danni della popolazione, vista la continua perdita di potere d’acquisto. Non ha dato ulteriori dettagli, annunciando che spiegherà tutto nel suo discorso di insediamento, ma ha dichiarato che «per eliminare l’inflazione ci vorranno tra i 18 e i 24 mesi», stimando che l’intera operazione di “dollarizzazione” dell’economia potrebbe arrivare a costare fino a 35 miliardi di dollari, che potrebbero essere coperti utilizzando proprio le riserve e il patrimonio della Banca centrale in liquidazione.
Paura e delirio alla Casa Rosada
Annunci simili hanno preoccupato non poco il settore finanziario argentino e internazionale, tanto che Caputo ha dovuto rassicurare le banche. Nel corso dell’ultimo incontro, secondo indiscrezioni di Reuters, l’ex ministro ha spiegato che il nuovo governo «prevede uno shock fiscale e monetario fin dal primo giorno», secondo una «roadmap ortodossa e senza follie». Ma, prima di tutto, l’esecutivo implementerà «un programma di stabilizzazione» economica e fiscale.
Inoltre, pur confermando l’intenzione di abolire i controlli valutari da parte di Milei, che ha definito «non negoziabile» la liquidazione della Banca centrale, Caputo ha fatto sapere che queste misure non saranno attuate immediatamente e che non è prevista la dollarizzazione a breve termine del Paese. La priorità infatti resta affrontare l’inflazione. Ma soprattutto il debito.
Da anni, Milei si scaglia infatti contro le “letras de liquidez”, conosciute come Leliq, strumenti di debito a breve termine emessi in pesos e remunerati dalla Banca centrale ma disponibili solo per le banche. Creati nel 2018, questi titoli mirano a sostenere la moneta locale ma con l’impennata dell’inflazione si sono trasformati in una trappola: ad oggi ammontano a quasi 14 miliardi di dollari mentre gli interessi si aggirano intorno ai 2 miliardi. Un peso enorme che va ad aggiungersi al debito estero.
Tra dollaro, Brics e realtà
Attualmente, l’Argentina è il Paese con il maggior debito nei confronti del Fondo monetario internazionale (Fmi), intervenuto due volte nel 2018 e nel 2022 per “salvare” Buenos Aires dal fallimento, prima con un programma da 50 e poi con un altro da 44 miliardi di dollari di prestiti.
Ma già vent’anni prima il Fmi aveva messo a disposizione del governo argentino 88,3 miliardi di dollari, ripagati per intero e in anticipo nel 2006 dall’amministrazione dell’allora presidente Néstor Kirchner, per lo più avvalendosi delle riserve estere. Una scelta che non risolse la crisi, anzi.
Proprio quel precedente non fa ben sperare. Malgrado Buenos Aires non abbia mai optato per la completa “dollarizzazione” dell’economia, dal 1991 al 2002 attuò un “piano di convertibilità” tra il peso e la valuta statunitense proprio nel tentativo di frenare l’iperinflazione.
Come notò ad agosto Mark Sobel, presidente dell’Official Monetary & Financial Institutions Forum (Omfif), quella scelta contribuì a «spezzare l’iperinflazione e rilanciare la crescita, (…) ma nel corso del decennio, i deficit fiscali e il debito non furono tenuti sotto controllo». Così, il Paese «non è stato in grado di finanziare i propri deficit esterni e ha perso l’accesso al mercato. Date le grandi passività esterne denominate in dollari, gli investitori hanno venduto titoli argentini, i tassi di interesse sono saliti in modo insostenibile, sono stati imposti pesanti controlli sui capitali e il piano di convertibilità è crollato con enormi sconvolgimenti economici, sociali e politici». Insomma, il piano di Milei potrebbe portare a un altro disastro.
Tutto questo senza contare che a partire da gennaio, l’Argentina dovrebbe entrare a far parte del club dei Brics+, insieme a Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica, Egitto, Etiopia, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita e Iran. Al di là del paradosso di un Paese Brics “dollarizzato”, il problema riguarda anche il debito contratto negli ultimi anni dall’Argentina con Pechino, che è il principale contraente e la prima economia di questo formato internazionale.
Quando le riserve internazionali di Buenos Aires, ad oggi in rosso di oltre 7 miliardi di dollari, hanno cominciato a contrarsi a causa della peggiore crisi economica degli ultimi vent’anni, il governo ha attivato una linea di swap valutario tra la sua Banca centrale e la Banca popolare cinese, il che ha permesso all’Argentina di ottenere liquidità in renminbi presso l’istituto di Pechino, a un tasso di interesse però mai reso pubblico.
L’operazione è cominciata ad aprile scorso quando l’esecutivo del presidente Alberto Fernández ha cominciato a sfruttare questa linea di credito da 18 miliardi di dollari, spendendo quasi 5 miliardi di dollari in valuta cinese, per lo più per sostenere le proprie aziende, ma destinando almeno un miliardo a giugno per ripagare una tranche del debito con il Fmi. A ottobre poi, prima delle presidenziali, ha preso in prestito in questo modo altri 6,5 miliardi di dollari in renminbi, usandone ancora una parte per rimborsare il Fmi. Uno strumento non gradito al neo presidente Milei, che vuole allontanare il Paese dal regime cinese, definito un governo di «comunisti assassini», con cui però prima o poi dovrà fare i conti. Con Pechino e con la realtà.