È stato un successo il ritorno dell’Argentina sui mercati finanziari internazionali. Buenos Aires ha ricevuto un boom di offerte, pari a quasi 70 miliardi di dollari, per l’emissione da 16,5 miliardi di dollari lanciata dopo 15 anni di stop, cinque in più di quelli inizialmente previsti.
Gli interessi sulle emissioni, che hanno scadenze a 3, 5, 10 e 30 anni, saranno compresi tra il 6,25 per cento e l’8 per cento. A garanzia dell’operazione sono intervenute le principali banche mondiali come Deutsche Bank, Hsbc, JP Morgan, Santander, Bbva, Citigroup e Ubs.
Con i soldi incassati, il governo argentino rimborserà i cosiddetti Tango Bond, cioè i titoli di Stato mai pagati dopo il default del paese nel 2001 e chiudere così la disputa con i creditori, inclusi 50mila italiani. L’Argentina ha promesso che i rimborsi ai creditori italiani arriveranno “entro giugno”, per un totale di 1,35 miliardi di dollari.
Il presidente Mauricio Macri, neoliberale eletto a dicembre grazie ai suoi appelli alla trasparenza e all’efficienza dopo i 12 anni di governo della sinistra peronista dei coniugi Kirchner, spera così nel breve periodo di avere il denaro per attuare le riforme annunciate in campagna elettorale.
Queste prevedono interventi impopolari come la svalutazione della moneta, la liberalizzazione dei tassi di cambio, del commercio e delle tariffe energetiche, l’aumento dei tassi di interesse e il licenziamento di migliaia di lavoratori del settore pubblico, i cui effetti dovranno inevitabilmente essere attutiti con un aumento della spesa pubblica, finanziata appunto con i titoli di stato.
Martedì 19 aprile centinaia di manifestanti hanno protestato di fronte al ministero del Lavoro di Buenos Aires contro l’inflazione a due cifre, la disoccupazione e i licenziamenti di massa.
Tuttavia l’accordo per il rimborso dei Tango bond si annuncia costoso finanziariamente e politicamente. L’opposizione peronista lo accusa di cedere al ricatto dei creditori internazionali e paragona le sue politiche neoliberiste a quelle di Carlos Menem, che sfociarono nel default argentino.
Inoltre, nonostante il successo della prima asta di titoli pubblici, la congiuntura economica dell’Argentina non resta delle migliori. Macri ha ereditato dal precedente governo un deficit al 7 per cento, riserve di valuta straniera ai minimi e un’inflazione al 30 per cento. Il prezzo della soia, il principale bene di esportazione è crollato, mentre il Brasile, terzo partner commerciale, è in recessione.
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