Ha comprato le star del calcio mondiale. Sta edificando Neom, l’avveniristica città sul Mar Rosso che costerà 500 miliardi di dollari e prende il nome dal greco “neo” (nuovo) con l’aggiunta di una “m” che sta per il suo nome. Si è aggiudicato recentemente Expo 2030, stracciando l’Italia con 119 voti per Riad contro i miseri 17 di Roma che non ha raccolto nemmeno le preferenze dei Paesi Ue. Mohammad bin Salman (Mbs), principe ereditario saudita, è la stella più brillante nel brillante firmamento delle petromonarchie del Golfo. Eppure meno di tre anni fa le cose non stavano affatto così.
Con il tracollo dei consumi di petrolio durante la pandemia Covid del 2020 (in un solo mese calarono di 20 milioni di barili al giorno, il calo maggiore dall’inizio dell’era del petrolio), fosche nubi si addensavano su Riad.
L’Arabia Saudita era impegnata in un sanguinoso quanto impopolare conflitto in Yemen. Aveva tagliato i ponti con il vicino Qatar, reo di sostenere l’Islam politico e di essere vicino all’Iran. Le raffinerie di Abqaiq e Khuarais erano state fatte saltare in aria nel settembre 2019 da dieci droni con simpatie iraniane interrompendo metà della produzione petrolifera saudita e rendendo lampante la sua vulnerabilità.
Infine era stato eletto il democratico Joe Biden come presidente degli Stati Uniti, che aveva presto dichiarato di voler «far pagare un prezzo» ai sauditi e di «renderli i paria che sono» come punizione per l’efferato omicidio del giornalista saudita del Washington Post e oppositore alla monarchia Jamal Khashoggi.
Il vento ha però iniziato a girare a seguito del rimbalzo delle economie mondiali nel periodo post-Covid, per poi invertire bruscamente la rotta dall’inizio delle guerra in Ucraina, che ha fatto lievitare i prezzi del petrolio e del gas naturale. Il mondo industrializzato si è dimostrato drogato di gas, petrolio e carbone ed è presto tornato a massimi storici dei consumi di fonti fossili (nel 2023 il consumo mondiale a toccato il suo picco dall’inizio dell’era industriale, superando 8,5 miliardi di tonnellate).
L’alleanza strategica dei maggiori esportatori di petrolio, l’Opec+ creata nel 2016, si è rinsaldata, grazie alla cooperazione fra Arabia Saudita e Russia, e si allargherà ulteriormente al Brasile, nono produttore mondiale di oro nero.
Ha così acquisito maggior peso il “Sud Globale”, un’alleanza assai eterogenea, ben rappresentata dall’emergere dei Brics, che quest’anno hanno deciso di allargarsi invitando, tra gli altri, proprio l’Arabia Saudita, insieme con Iran ed Emirati Arabi. Con l’ingresso di questi petrostati i Brics, già primi per ricchezza mondiale e per popolazione, potrebbero vantare anche il 43% della produzione mondiale di petrolio.
Il già complicato sodalizio tra Stati Uniti e monarchia saudita, che data dalla Seconda guerra mondiale, è stato incrinato ulteriormente dal riavvicinamento tra Teheran e Riad, concretizzatosi in scambi di visite ai massimi livelli grazie alla mediazione cinese, nonché dai bombardamenti indiscriminati di Israele contro la popolazione di Gaza, che potrebbero congelare la “normalizzazione” delle relazioni tra i sauditi e lo Stato ebraico, un successo diplomatico che avrebbe dovuto rappresentare il più significativo contributo dell’amministrazione Biden alla nascita di un “nuovo Medio Oriente”.
Ottimismo infondato
Alla fine del 2023, nel cinquantesimo anniversario dello “choc petrolifero”, in un quadro di inflazione trainata dall’aumento dei prezzi dell’energia e dei prodotti agricoli, di crescita dell’indebitamento degli Stati, il tutto condito dal riesplodere delle ostilità tra Israele e palestinesi, lo scenario sembra ancora una volta quello di un potente fronte petrostati guidato dall’Arabia Saudita, nel quadro di una maggiori rivendicazioni di autonomia del Sud Globale. Ma è tutto oro quello che luccica?
In primo luogo bisogna considerare che le entrate di tutti i petrostati, dall’Arabia Saudita all’Algeria, sono determinate quasi esclusivamente dalle vendita sui mercati internazionali degli idrocarburi, dunque da volumi e prezzi di vendita di gas e petrolio, e dalle loro prospettive future. Nel mondo di oggi però, al contrario che nel 1973 e per quanto controintuitivo possa sembrare, il coltello dalla parte del manico lo hanno i “consumatori” e non i “produttori” di petrolio.
Cinquant’anni fa i prezzi del greggio aumentarono di oltre quattro volte, i consumi non scesero, i prezzi si mantennero altissimi per il resto del decennio, per poi impennarsi ancora una volta nel 1979 dopo la rivoluzione iraniana. Oggi invece all’impennata dei prezzi del petrolio nel 2022 (nel maggio avevano superato i 120 dollari al barile) è seguita una loro lenta, ma inesorabile, diminuzione.
I livelli attuali, storicamente alti ma non altissimi, riescono ad essere mantenuti solo grazie a estenuanti negoziati dell’Opec+ che si basano su tagli volontari alla produzione di Arabia Saudita e Russia, mentre altri Paesi, in primo luogo quelli africani, come Angola e Nigeria, sono sempre più refrattari ad ogni limitazione.
L’Opec+ continua a sostenere, in aperto contrasto con le valutazioni dell’Agenzia internazionale per l’energia (Iea), che i consumi di idrocarburi non cominceranno a calare entro questo decennio, tra l’altro perché vi sarà una crescita sostanziale delle domanda nel mercato in via di sviluppo, in particolare in Africa. Il segretario generale dell’Opec, Haitham al Ghais, ha denunciato che l’Iea «consapevolmente sottace questioni come la sicurezza energetica, l’accesso all’energia e la povertà energetica» che avrebbero bisogna di significativi investimenti «in tutte le energie».
Ci sono alcuni fatti che però fanno da contraltare a questo ottimismo: l’aumento degli investimenti nelle rinnovabili in Europa, Stati Uniti e Cina è un fatto; così come sono un fatto i generalizzati impegni appena confermati nella Cop28 alla «transizione dalle fonti fossili nei sistemi energetici» (il dato tendenziale è che tra il 2013 e il 2022 le emissioni di CO2 sono aumentate dello 0,5%, comunque meno del 2,6% del decennio precedente); così come è un fatto che dal Venezuela alla Libia ci sono significative possibilità di aumento della produzione di petrolio una volta superate le crisi interne e che i numeri dei Paesi che producono almeno 100mila barili al giorno è lievitato dal 1973; così come è un fatto che tutti hanno previsto da decenni un’esplosione delle economie africane che, fino ad oggi, faticano a manifestarsi, caricate come sono da un enorme debito internazionale e dalle pressione di logiche predatore degli investitori internazionali.
Il rischio per i petrostati è semmai che appena dovessero cominciare a ridursi in modo strutturale i consumi mondiali di petrolio e gas naturale, questi subirebbero pressioni terribili ad entrare in competizioni gli uni contro gli altri per mantenere le proprie quote di produzione, facendo così inabissare i prezzi. Allora di progetti come Neom, interamente foraggiati da giganteschi flussi di rendita petrolifera, non resterebbero che le laute parcelle dei consulenti McKinsey.
L’utilizzo dei petrodollari
In secondo luogo il “modello Mbs” di utilizzo della rendita petrolifera è carico di rischi. L’Arabia Saudita aveva fino al 2015 un fondo sovrano, il Public investment fund (Pif), dalle dimensioni assai limitate, mentre i suoi asset finanziari venivano gestiti dalla banca centrale saudita Sama.
Con l’ascesa di Mbs, al Pif sono stati conferiti asset sempre più importanti, in particolare l’8% delle azioni della società del petrolio saudita Saudi Aramco, quotata in borsa a fine 2019 (società che da sola genera tutte le entrate del Governo saudita). In questo modo il suo valore è lievitato a 700 miliardi di dollari, che lo rendono il quinto fondo sovrano al mondo, e le ambizioni della casa reale sono di farne entro il 2030 il più grande al mondo con asset per 3 trilioni.
Il Pif, governato in modo assai opaco dalla famiglia reale, è però cresciuto attraverso un meccanismo perverso per un petrostato: per valorizzare i suoi asset, infatti, quote crescenti di Saudi Aramco dovrebbero essergli conferite, e la società petrolifere dovrebbe macinare sempre utili e dividendi (e ovviamente produrre sempre più petrolio) ma, alla stesso tempo, per macinare questi utili e dividendi Saudi Aramco dovrebbe pagare sempre meno tasse, che sono quelle che in sostanza tengono in piedi lo Stato, garantendo al popolo saudita il suo attuale tenore di vita.
Gli investimenti del Pif generati dallo sfruttamento di una risorsa naturale finita come il petrolio, al contrario ad esempio di quelli del fondo sovrano norvegese, sono altamente speculavi, orientati dalle intuizioni di Mbs e del suo entourage.
Il rischio è che la ricchezza che appartiene a tutti i sauditi venga impiegata nel tempo delle vacche grasse piuttosto arbitrariamente in progetti senza sostenibilità di lungo periodo. Se il Pif viene trattato come un giocattolo, è bene tenere presente che la caratteristica dei giocattoli è che tendono a rompersi, specie se nelle mani sbagliate.
Gaza e Israele
In terzo luogo la distanza tra leadership arabe, inclusa quella saudita, e i loro popoli che premono dal basso con sempre più forza perché gli Stati offrano un supporto concreto alla causa palestinese, tendenzialmente vedendo in Hamas un movimento di liberazione anticoloniale, è sempre più ampia.
È vero che la famiglia reale saudita è restata saldamente al potere dalla creazione del Paese nel 1933, ma è altresì vero che durante la guerra del Kippur del 1973 il re saudita Faisal si era comportato in modo assai differente da Mbs oggi, intestandosi a supporto della causa palestinese e degli Stati arabi coinvolti nella guerra il taglio della produzione e l’embargo nei confronti dei Paesi che sostenevano Israele.
Le petromonarchie del Golfo giustificano oggi la loro sostanziale inerzia nei confronti del massacro della popolazione di Gaza dietro il fatto che un embargo non avrebbe efficacia perché le reti di approvvigionamento sono oggi più diversificate e flessibili, e che non c’è unità nel mondo arabo visto che alcuni Paesi come Emirati Arabi, Bahrain e Marocco hanno recentemente normalizzato le relazioni con Israele.
È vero però anche che la causa palestinese, nonché la protezione dei luoghi sacri dell’Islam a Gerusalemme è talmente connaturata all’identità degli Stati arabi e che leadership che appaiono imbelli e subalterne, specie in un momento di alti prezzi del petrolio, rischiano di essere destabilizzate dalla nascita di movimenti sociali e politici interni di carattere rivoluzionario.
L’Occidente è sempre più isolato nella politica internazionale, dall’Ucraina all’Africa subsahariana passando per Gaza. Ma è altrettanto vero che l’attuale auge delle petromonarchie, con in testa quella saudita, rischia di essere un fenomeno di breve termine, fortemente mediatico, se leadership troppo isolate e autoritarie non assumono come orizzonte strategico la fine dell’era del petrolio, destinata ad un declino più o meno turbolento. Come ha detto il più grande scrittore saudita, Adbelrahman Munif, al traduttore inglese del suo epico Città di sale, «il petrolio è la nostra unica possibilità di costruirci un futuro, e i regimi la stanno sprecando».
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