“Sono passati 6 mesi e mezzo, eppure ancora oggi mi chiedo perché sono stato arrestato e trascinato in Siria, nel solco dei conflitti armati”. Anas Al Mustafà, rifugiato siriano di 40 anni, è fuggito in Turchia dopo aver perso tutto a causa dello scoppio della guerra civile siriana. Nato ad Aleppo, una delle città teatro del terribile scontro tra ribelli e governo di Damasco, Anas ha perso tutto: la casa, il lavoro, persone a lui care. Dopo essere riuscito ad attraversare il confine turco, nel 2016 ha ottenuto una protezione temporanea e un regolare titolo di soggiorno in Turchia.
A Konya, la città dell’Anatolia in cui vive, Anas ha fondato l’associazione A friend indeed che, grazie al sostegno di benefattori in tutto il mondo, soprattutto in Europa e in Italia, offre assistenza a più di 175 famiglie molto povere, per lo più composte da vedove e da circa 400 bambini orfani, che hanno perso i padri durante la guerra in Siria. Negli anni, la sua associazione ha collaborato con le organizzazioni italiane “Crescere insieme” e “Mani di Pace”, oltre che con l’organizzazione rumena “Help and care trust”, che lo hanno incontrato e supportato a Konya per aiutare le famiglie del progetto.
Lo scorso 15 maggio, la polizia turca ha fatto irruzione a casa di Anas, dicendo che dovevano fargli delle domande. “Mi hanno portato alla stazione di polizia, lì mi hanno detto di lasciare tutti i miei oggetti personali, il telefono, il portafogli, e mi hanno portato in prigione”, racconta Anas a TPI che lo ha contattato telefonicamente. “Quando ho chiesto loro perché mi stessero arrestando, quale fosse il mio crimine, non mi hanno risposto”. In seguito, i carcerieri turchi hanno detto che dovevano verificare la regolarità delle carte di residenza, ma dalle informazioni ricevute da Amnesty International risultava che i documenti di Anas erano perfettamente in regola.
Durante i suoi giorni in carcere, gli agenti hanno strappato il documento originale turco che legittimava Anas a risiedere a Konya e anche la fotocopia di quello siriano che portava sempre con sé nel portafogli. L’originale si è salvato perché era rimasto a casa sua. Per diversi giorni, Anas è rimasto in cella insieme ad altri cinque siriani che non conosceva.
“In quel momento mi sono sentito solo, nessuno mi supportava, nessuno riusciva a sentire la mia voce”, racconta a TPI. “Ai poliziotti chiedevo di trattarmi non come un rifugiato, né come un musulmano: ho chiesto loro solo di trattarmi come un essere umano, datemi la possibilità di contattare un avvocato. Hanno rifiutato”. Tramite un amico che lo va a trovare in carcere, Anas riesce comunque a contattare un avvocato turco. Nonostante il pagamento di 1.600 euro, tuttavia, il legale non ha mai preso in carico il suo caso: Anas non l’ha mai visto e non riesce a spiegarsi il motivo.
Una sera Anas e gli altri rifugiati vengono obbligati a firmare un documento scritto in lingua turca (lingua che non conoscono bene). Vengono fatti salire con la forza su un furgoncino senza targa identificativa e riportati oltre il confine siriano. I giorni successivi, Anas li ha passati in un centro di isolamento a Idilib, un luogo che definisce “molto sporco” e da cui è riuscito a scappare dopo una settimana. Da quel momento ha vissuto in clandestinità, nascondendosi presso amici siriani di cui si fidava.
La situazione legale
“Ho iniziato a seguire il caso di Anas quest’estate, dopo essere stata contattata da Muna Khorzom, attivista di origine siriana residente ormai da tempo in Italia”, racconta a TPI l’avvocato Chiara Modica Donà Dalle Rose, titolare dello studio International Law Firm Politeama, che insieme alla collega Valentina Blunda, con il supporto di Mariangela Cirrincione, Giulia Anselmo e Monica Cerrito, ha offerto supporto legale ad Anas a titolo gratuito per presentare ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo. “Proprio per la sua attività umanitaria e la collaborazione con onlus internazionali, in Siria Anas correva l’alto rischio di essere rapito dai ribelli. Dal momento che l’associazione non avrebbe potuto pagare il riscatto, sarebbe stato probabilmente ucciso“, spiega l’avvocato. Il rimpatrio in Siria è un fatto che “mette a in grave rischio di vita Anas soprattutto per la notorietà del suo operato e per essersi rifiutato di prendere le armi in Siria, da una parte o dall’altra”.
“Ho vissuto nascosto, mi dispiace persino dirlo, come un ratto. E per quale crimine?”, si chiede oggi Anas, che ammette di aver avuto molta paura. Quando la situazione per lui si è fatta insostenibile, ha deciso di affidarsi ai trafficanti per provare a tornare in Turchia. “Ho camminato per 30 ore, senz’acqua e senza cibo, attraversando boschi e montagne, per tornare in Turchia”, racconta. “Non l’avrei fatto se non fossi stato sicuro al 100 per cento di essere innocente”.
Durante il viaggio, Anas è rimasto in contatto con l’avvocato ogni tre ore, senza mai far perdere le sue tracce. “Molti rifugiati che vengono riportati in Siria spesso rifanno il viaggio al contrario verso la Turchia”, spiega Chiara Modica Donà Dalle Rose, “non hanno scelta se vogliono sopravvivere ed è difficile che trovino avvocati pronti a presentare ricorsi per loro”. “Nel caso di Anas”, prosegue l’avvocato, “la Corte di Strasburgo lo scorso 25 novembre ha respinto il ricorso, perché non sarebbe stato provato che lui ha esercitato tutte le vie di ricorso interne possibili. Dietro questa posizione della Corte, tuttavia, si cela spesso una non piena e consapevole lettura dei casi presentati. Dopo l’arresto di Anas, non gli è stato garantito un avvocato ed è stato direttamente riportato in Siria: un atto estremo, finale. Non aveva alcuna protezione, quali ricorsi avrebbe potuto fare?”.
Pochi giorni fa la polizia turca è tornata a casa di Anas. Non lo hanno arrestato, ma lui pensa che potrebbero tornare a prenderlo in qualsiasi momento per riportarlo in Siria, come è accaduto a uno dei rifugiati siriani che era stato deportato insieme a lui e che è stato nuovamente arrestato e riportato in territorio siriano pochi giorni fa. Eppure, nonostante i rischi che corre e nonostante la sua collaborazione con diverse onlus europee potrebbe aprirgli la prospettiva di un futuro nell’Ue, Anas preferisce rimanere a Konya.
“Ho lasciato la Siria per vivere in un posto più sicuro, non mi interessa quale sia. Non voglio essere arrestato di nuovo”, dice. “Ma preferirei restare qui, in Turchia, per occuparmi delle 175 famiglie di cui mi prendo cura con l’associazione. Molti di questi bambini hanno perso i loro padri in Siria, mi vedono come un padre o uno zio. Non posso abbandonarli. In Turchia, inoltre, ho molti amici: è un bellissimo paese in cui tante persone per bene ci hanno accolto e ci hanno sostenuto con tanti gesti di solidarietà”.
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