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    Dentro l’inferno di Afrin: ecco come la Turchia sta facendo strage di donne e bambini

    Afp photo / George Ourfalian

    Le drammatiche storie dei civili colpiti dai bombardamenti dell'esercito turco, che sta portando avanti un'offensiva militare contro i curdi siriani

    Di Gianluigi Spinaci
    Pubblicato il 29 Gen. 2018 alle 17:09 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 21:24

    Il 29 gennaio una serie di raid aerei dell’esercito turco hanno gravemente danneggiato un antico tempio nella regione curda di Afrin, in Siria.

    La Turchia ha lanciato nella regione di Afrin la sua operazione “Olive Branch”, ramo d’ulivo, contro le milizie curde Ypg, Unità per la protezione del popolo curdo siriano, con attacchi aerei iniziati giovedì 18 gennaio.

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    Il presidente turco Erdogan ha promesso di prendere il controllo di Afrin e poi della vicina città di Manbij.

    “Ci libereremo di questi terroristi che cercano di invadere il nostro paese”, le sue parole.

    L’Independent ha raccontato alcune storie delle vittime dell’offensiva militare dell’esercito turco.

    Taha Mustafa al-Khatr, sua moglie Amina, le sue due figlie Zakia e Safa e il figlio Sulieman, come da tradizione nel mondo arabo, misero le loro scarpe fuori dalla porta prima di andare a dormire nella loro casa del piccolo villaggio di Maabatli.

    Quando una bomba turca colpì la casa all’una di notte, lasciò praticamente intatte quelle scarpe.

    I corpi, invece, non c’erano più.

    Taha aveva 40 anni, come sua moglie Amina, Zakia ne aveva 17 e suo fratello Suliemann solo 14.

    Safa, che ne ha 19, è sopravvissuta miracolosamente, riportando solo delle ferite alle mani, ma ora è orfana.

    I componenti della famiglia al-Khatr non erano nemmeno curdi, l’obiettivo dell’offensiva turca, bensì arabi, profughi dal villaggio di Tel-Krah, che si trova più a nord.

    “Vieni nel nostro ospedale qui ad Afrin per scoprire cosa è successo”, ha detto il dottor Jawan Polat, direttore dell’Afrin Hospital, al corrispondente dell’Independent.

    “Dovresti vedere i morti quando entrano e le condizioni dei feriti coperti di sangue”.

    Nell’ospedale di Afrin c’era Mohamed Hussein, un contadino di 58 anni di Jendeeres, con ferite alla testa e un occhio chiuso, scampato alla morte quando il tetto della sua casa si era schiantato a causa di un attacco aereo il 22 gennaio.

    Ahmad Kindy, che di anni ne ha 50, si è visto portare via la sua famiglia dal “ramo di ulivo” della Turchia, nell’attacco del 21 gennaio. “Non c’erano combattenti del Ypg in quel luogo”, ha detto.

    Il ventenne Dananda Sido, del villaggio di Adamo, gravemente ferito al petto e alle gambe, scoppia in lacrime quando il giornalista prova a parlargli.

    Un’altra ragazza di vent’anni, Kifah Moussa, lavorava nella fattoria di polli della sua famiglia a Maryameen quando gli aerei turchi hanno lanciato una bomba sull’edificio.

    In quel raid un’intera famiglia di otto persone è stata sterminata.

    Kifah è stata colpita al petto, ma è riuscita a sopravvivere.

    Poi c’è lo scolaro curdo Mustafa Khaluf, anche lui di Jendeeres, che ha sentito gli aerei turchi arrivare sopra la sua casa, subendo gravi ferite alle gambe durante l’attacco.

    La versione ufficiale turca di questo massacro è che più di 70 jet turchi hanno bombardato le milizie curde del Ypg in Siria il 21 gennaio.

    L’agenzia di stampa turca Anadolu ha dichiarato che gli aerei turchi hanno bombardato più di 100 “obiettivi mirati”, tra cui “caserme, rifugi, posizioni, armi, veicoli e attrezzature”.

    Secondo il dottor Polat, solo quattro combattenti del Ypg sono morti e due sono rimasti feriti il ​​primo giorno degli assalti turchi.

    Altri sette soldati curdi sono morti e nove sono stati feriti nel resto della settimana.

    Scorrendo nei file dell’ospedale emerge che tra i 49 feriti civili portati ad Afrin c’è Hamida Brahim al-Hussein, di tre anni, ferita alla testa nell’attacco della fattoria di polli che ha colpito la famiglia di Kifah Moussa.

    Sono tantissimi i feriti civili negli attacchi turchi di fine gennaio.

    Poi ci sono i morti: nell’elenco si contano 10 bambini, 7 donne e 17 uomini.

    Wael al-Hussein aveva un anno ed era un rifugiato, a sua insaputa ovviamente, del villaggio di Jebbarah, quando è stato ucciso il 21 gennaio.

    Moussab al-Hussein, da Idlib, ne aveva sei, e anche lui è morto lo stesso giorno.

    Leggi anche: La Turchia ha lanciato un’operazione militare contro i curdi in Siria

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