È una ragazza minuta Ada: ha 19 anni, i capelli lunghi e il colore degli occhi che ricorda quello della giovane afghana ritratta nella celebre foto di Steve McCurry scattata nel lontano 1984. Anche lo sguardo è lo stesso. Dolente e coraggioso allo stesso modo. Perché Ada, questo è il suo vero nome, vuole raccontare la storia dell’Afghanistan, della sua famiglia che non vede da tre anni e con cui non riesce più a comunicare nemmeno via cellulare.
La incontro a Rieti nella sede del centro di accoglienza dello Sprar, accompagnata da Chiara Curini, una delle operatrici. Sul tavolo, davanti a noi, tre tazze di tè e un computer sul cui schermo c’è il volto di Fahimeh Shahhosseini, mediatrice di lingua dari che farà da interprete. Ada parla poco l’italiano ma capisce ciò che dico, anche se la timidezza spezza tutte le parole che prova a pronunciare.
Sono tre anni che è in Italia perché la sua famiglia è dovuta fuggire dall’Afghanistan a causa del lavoro del padre che non era ben visto dai talebani perché aveva contatti anche con Paesi esteri. Le domando se dopo la fuga sono arrivati subito in Italia. E dalla risposta capisco che la storia si ripete ogni volta e nello stesso modo, quando ascolti chi è fuggito.
Ada, con i genitori e i fratelli è partita in auto dall’Afghanistan: il piano era di attraversare l’Iran per poi proseguire il viaggio verso la Turchia e la Grecia. Ma al confine turco sono stati fermati da alcuni trafficanti che li hanno fatti scendere dalle macchine (con loro viaggiavano anche altri parenti) per costringerli a salire, dopo averli divisi, su due jeep accalcati insieme ad altre persone. Ada mi racconta che l’hanno spinta e costretta a salire sulla prima macchina senza la sua famiglia che è stata invece caricata nell’altra.
Il padre, la madre e i fratelli sono stati riportati indietro e da allora non li ha più visti. Aveva 16 anni. Lei è riuscita a raggiungere la Grecia, ma la voglia di allontanarsi e trovare un rifugio sicuro è stata più forte e così è iniziato il viaggio a piedi passando per Macedonia, Serbia, Bosnia, Croazia e Slovenia. Infine l’Italia.
Ada non ricorda per quanto tempo hanno viaggiato ma sa che tre anni della sua vita li ha trascorsi attraversando l’Europa. Un continente che oggi, lo dice chiaramente, guarda alla situazione in Afghanistan con troppo distacco mentre la parola libertà è stata cancellata del tutto.
Mi dice che sono quarant’anni che in Afghanistan si vive in un clima di guerra e da sempre i talebani hanno un grande potere. La differenza è che prima erano più nascosti e le loro basi erano in paesi più piccoli dove trovavano proseliti imponendo le loro regole. Da sempre erano anche intorno alle città più grandi mentre occupavano indisturbati le località intorno alle aree urbane. Poi è accaduto quello che ogni giorno si vede ovunque. Ma, dice Ada, ciò che vedete oggi accadeva anche tre anni fa con una pressione fortissima sui cittadini, soprattutto giovani e donne, che volevano vivere la loro vita.
Ogni Paese ha le sue usanze, ma quando vengono imposte non sono più libertà, sottolinea. Se le chiedo delle donne lo sguardo si fa duro e arrabbiato perché spiega che per i talebani le donne non hanno mai avuto alcun diritto, non contano niente.
“Veniamo considerate poco più che schiave sempre pronte a dover soddisfare i loro bisogni, come persone non esistiamo e non abbiamo alcun diritto. Da sempre le donne vengono giustiziate, la maggior parte delle volte senza alcuna ragione e per lo più non davanti alla folla, ma in luoghi desertici o in montagna. Loro la chiamano giustizia”.
Prima, perché glielo hanno raccontato, Ada spiega che c’era sicuramente un po’ di libertà in più, qualche donna poteva studiare anche in base alla famiglia da cui veniva e le giornaliste avevano un minimo di libertà, potevano parlare. “Questo prima dell’arrivo dei talebani: ora è solo silenzio”. Si ferma e si asciuga gli occhi umidi quando le chiedo se sa dove siano i suoi genitori.
“Purtroppo non ho notizie e infatti sono molto preoccupata perché sembra che i talebani abbiano distrutto tutte le antenne che permettevano di comunicare via cellulare con i parenti che ancora sono in Afghanistan. Non riesco a contattarli in nessun modo, né mia madre, né mio padre né i miei fratelli”.
Ma chi sono i talebani, Ada? “Sono pakistani che parlano la nostra lingua e sono riusciti ad infiltrarsi ovunque e lo hanno fatto in tutti questi anni sponsorizzati da altri Paesi. E tutti sanno bene di cosa parlo, non c’è bisogno che li nomini io: la cosa triste è che il mondo occidentale sembra abbia dimenticato l’Afghanistan e il suo popolo”. Ada lo sa: “L’uomo è nato per essere libero e per vivere in libertà di qualsiasi sesso sia, l’importante è essere liberi”.
Poi le chiedo cosa significhi per lei la parola coraggio. “Il coraggio mi fa venire in mente tutti i desideri che ho e che posso e voglio realizzare”. Il tuo popolo un giorno potrà tornare libero? “Spero che un giorno l’Afghanistan torni a essere un Paese libero, senza passare di mano in mano a vari paesi occidentali e spero di poterci tornare e non dover più vivere sempre con un nemico intorno. Tutti gli afghani lo sperano e spero che un giorno accadrà”.
E Ada cosa farà? “Se un giorno il mio Paese tornerà libero dove tutti e in particolare le donne potranno vivere in libertà, il mio desiderio è quello di tornarci, perché per ognuno di noi il proprio Paese è come una seconda madre. E come una madre è quello a cui vogliamo essere vicini. Purtroppo, oggi come oggi, non posso tornare e rimango qui dove la parola libertà ha ancora un valore e dove posso esprimere le mie idee con accanto persone che mi hanno accolta”.
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