L’Afghanistan è il primo Paese al mondo per la coltivazione del papavero da oppio, con un raccolto che rappresenta l’80% dell’offerta globale, secondo i dati dell’agenzia ONU per il controllo della droga e la prevenzione del crimine.
Incidendo le capsule non ancora mature della pianta del papavero e lasciando rapprendere all’aria il lattice che ne trasuda, si ottiene l’oppio. Da questo si possono poi ricavare diversi narcotici, chiamati oppiacei, tra cui morfina, codeina ed eroina.
La coltivazione del papavero da oppio occupa in Afghanistan circa 163,000 ettari (quella del mais nella pianura padana è di circa 140,000 ettari), e si concentra in particolare nelle province meridionali del Paese.
Il portavoce dei talebani Zabihullah Mujahid, durante la conferenza stampa rilasciata il 18 agosto, ha dichiarato che la coltivazione e il traffico di oppio verranno vietati e ridotti a zero nel Paese, e ha chiesto l’aiuto della comunità internazionale per raggiungere questo scopo.
Quanto è credibile questa dichiarazione? Difficile a dirsi con sicurezza al momento, ma possiamo meglio inquadrare la situazione considerando due fattori: la dipendenza economica dei talebani dalla produzione e dal traffico di oppio, e il loro comportamento in passato rispetto a questa coltivazione.
Quanto ricavano i talebani dal mercato degli oppiacei?
Secondo le stime ONU, in Afghanistan il mercato degli oppiacei, che include produzione, consumo interno ed esportazione di queste sostanze, ha generato nel 2019 tra l’1,2 e i 2,1 miliardi di dollari statunitensi, pari al 7%-11% del PIL del Paese.
La coltivazione del papavero darebbe lavoro a quasi 120mila persone, e secondo lo stesso rapporto, più di un terzo dei coltivatori hanno affermato di pagare un’imposta sul raccolto a forze non-governative, soprattutto talebani. La tassazione riportata dall’ONU è di “circa il 6%” – considerando il prezzo medio pagato ai coltivatori e il volume dei raccolti, si può calcolare un totale di circa 14,5 milioni di dollari annui di “tasse” pagate dai coltivatori.
Assumendo la stessa tassazione anche per le successive fasi di lavorazione e traffico degli oppiacei, l’ONU calcola un ricavo complessivo tra i 61 e i 113 milioni di dollari per le forze non governative, solo nel 2019. L’intervallo delle stime riportate è molto ampio (da poco più di 60 milioni a quasi il doppio), e mette in risalto quanto sia difficile ottenere dati affidabili e derivarne un quadro accurato.
Un rapporto pubblicato dal governo degli Stati Uniti nel 2018 evidenzia proprio la difficoltà di calcolare in modo più preciso i ricavi dei talebani dal mercato degli oppiacei. Ad esempio, spesso la tassa sul raccolto viene automaticamente considerata pari al 10% del guadagno del coltivatore.
Questo perché, secondo la legge islamica, i coltivatori sono tenuti a versare un’imposta – chiamata ushr – equivalente a un decimo del loro prodotto. Ma in Afghanistan la parola “ushr” si usa come termine generico per “tassa”, indipendentemente dal fatto che sia conforme alla legge islamica o meno. Il rapporto sottolinea che “se un coltivatore afferma di pagare l’ushr ai talebani, non si può automaticamente assumere un’imposta del 10%”. Infatti, le tasse pagate sui raccolti normalmente non si basano su una percentuale del ricavo del singolo coltivatore, anche perché nelle zone rurali non esiste un sistema amministrativo sufficientemente sviluppato per effettuare un’operazione simile.
Di solito l’imposta è un prezzo fisso per volume del raccolto (ad esempio per chilo – ma il prezzo al chilo non è uniforme in tutto il territorio), o per unità di terreno. Secondo lo studioso David Mansfield, che ha passato oltre vent’anni in Afghanistan a studiare la coltivazione di papavero da oppio, se proviamo a convertire queste imposte in termini di percentuale rispetto al prezzo del raccolto si arriva a una figura tra l’1% e il 2,5%.
Quanto dipendono economicamente dal narcotraffico?
La maggior parte delle fonti sono d’accordo nell’affermare che produzione e traffico di oppiacei siano un’importante fonte di finanziamento per i talebani, ma non è chiaro che percentuale questo rappresenti nel totale dei loro ricavi. E di conseguenza, quanto potrebbero risentirne economicamente se questa attività venisse interrotta. Il rapporto statunitense sopracitato stima che il business del narcotraffico rappresenti tra il 25% e il 60% dei ricavi dei talebani, ed evidenzia l’esistenza di opinioni e dati contrastanti.
Uno studio svolto nella provincia di Nimroz riporta che i talebani, in questo territorio, hanno raccolto un totale di 53 milioni di dollari nel 2020. Ma secondo questa ricerca, quasi l’80% dei guadagni dipendeva dalla tassazione sul carburante e sul transito delle merci (40,9 milioni), mentre le sostanze stupefacenti ammontavano a circa il 10% dei guadagni (5,1 milioni), seguiti dalle imposte su coltivazioni di piante legali, come grano e melone (4,3 milioni).
Guardando in particolare ai ricavi del traffico di stupefacenti, lo studio evidenzia che quasi i tre quarti di questi si devono alla produzione e al traffico di metamfetamine, attività che sono aumentate molto negli ultimi anni in Afghanistan, mentre gli oppiacei rappresentano quasi un quarto (quasi il 25%, quindi in linea con la stima più bassa del rapporto statunitense).
Lo studio si riferisce a una provincia soltanto, non all’intero Paese, e per quanto svolto sul campo, questi calcoli devono comunque essere considerati come approssimativi. Tuttavia, è chiaro che la dipendenza dei talebani dai guadagni del mercato degli oppiacei potrebbe essere minore rispetto al 60% spesso citato dai media italiani e internazionali, che riportano esclusivamente la stima più alta del rapporto USA.
Inoltre, questo rapporto cita una stima di alcuni anni prima, quando il governo afghano aveva calcolato che i talebani guadagnassero circa 100 milioni di dollari grazie al narcotraffico – il 25% dei loro ricavi totali nell’anno 2011-2012 (400 milioni). Ma questa cifra è stata ripresa in modo parziale da alcuni articoli che citano soltanto: “le stime dei ricavi annuali dei talebani grazie al narcotraffico vanno dai 100 ai 400 milioni di dollari”.
Talebani e produzione di oppio: dal 1996 a oggi
Quando i talebani ottennero il controllo della maggior parte del Paese nel 1996, la coltivazione di papavero aumentò notevolmente. In tre anni quasi raddoppiò, rendendo il Paese il più grande fornitore di oppio illegale già nel 1999. Questo aumento fu particolarmente pronunciato nella provincia di Hilmand, nel sud del Paese, che da sola forniva il 39% dell’offerta globale di oppio.
Ancora oggi, la provincia di Hilmand riporta la maggior concentrazione di papavero da oppio, con oltre 90mila ettari coltivati nel 2019 (su un totale di circa 163,000). Ma nel 2000, i talebani proibirono il consumo e la coltivazione di oppio e, come si vede dal grafico in basso, il divieto fu implementato con successo l’anno successivo – tanto da causare una diminuzione del 75% dell’offerta globale di eroina.
Secondo il rapporto USA, le ragioni dietro al divieto dei talebani non sono chiare. Una possibile spiegazione è che i talebani stessero cercando di legittimare il regime agli occhi della comunità internazionale – una ragione che potrebbe spiegare anche il più recente annuncio. Un’altra spiegazione citata è che volessero artificialmente aumentare i prezzi degli oppiacei (un risultato della diminuzione dell’offerta), per poter poi ricavare un profitto più alto sul prodotto accumulato in precedenza.
Il divieto durò però poco, vista la caduta del regime nel 2001. Da allora, la coltivazione ha ricominciato a crescere, raggiungendo l’apice nel 2017. Ma la maggior parte della coltivazione del papavero si è concentrata negli ultimi anni proprio nelle zone sotto il controllo dei talebani.
In particolare, nel 2017 diversi distretti della sopracitata provincia di Hilmand erano già sotto il totale controllo dei talebani. Un dato simile è riportato anche dallo studio dell’ONU, secondo il quale nel 2019 la percentuale di villaggi controllati da fazioni non governative era molto più alta nelle zone in cui il papavero è coltivato (83%), rispetto alle altre (44%).
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