Non è un giorno qualsiasi in Afghanistan. Secondo i piani, da oggi, 15 febbraio 2019, dovrebbe cominciare il ritiro di metà dei 14.000 soldati americani che dal 2002, con l’operazione Anaconda, sono nel Paese per combattere i talebani. Missione fallita, si potrebbe dire, dal momento che a fine gennaio a Doha tra Stati Uniti e Talebani è stato firmato un accordo di pace.
I talebani si impegnano a evitare che l’Afghanistan diventi una “piattaforma per gruppi terroristici internazionali”, mentre gli Stati Uniti entro aprile ritireranno anche l’altra metà del contingente.
Sull’accordo, però, pesano molte ombre, soprattutto perché nelle zone controllate dai talebani la situazione non è migliorata, specialmente sotto certi aspetti. Alle donne, per esempio, sono ancora negati molti diritti e in alcune zone del Paese risulta sempre molto difficile avere un’istruzione.
Su questo fronte combatte da anni Suraya Pakzad, che nel 1998 ha fondato l’associazione Voice of Women e ha iniziato da sola semplicemente a insegnare alle ragazze a leggere e scrivere. Suraya ha subìto sulla sua pelle molto e ha lottato per studiare e per diventare la donna che è oggi.
“Avevo solo 12 anni quando la mia preside fu uccisa davanti ai miei occhi solo perché non indossava una sciarpa”, racconta. “In quel momento non potei far nulla, ma capii che se volevo salvarmi dovevo sapere esattamente cosa stava succedendo e fare ciò che doveva essere fatto. Sono cresciuta durante gli anni di resistenza armata contro il governo sostenuto dai sovietici”.
“Con molta fatica e con continue minacce, ho completato la mia laurea in Dari Literature e proprio ora, sto facendo il mio master in Gestione pubblica e Leadership. Credo fermamente nel potenziale delle ragazze e delle donne, perciò il mio obiettivo è quello di creare un ambiente sostenibile dove le donne stesse possano difendere i propri diritti e rafforzare le capacità di partecipare al processo decisionale a tutti i livelli”, dice.
Il progetto di Voice of Women viene da lontano. Nel 1998 Suraya Pakzad viveva a Kabul con i suoi quattro figli in un trilocale in affitto. Non c’era molto spazio eppure decise di trasformarne una delle camere in una scuola segreta per ragazze, per tenere accesa la candela dell’istruzione nel momento più buio del dominio talebano.
“Non fu facile”, ricorda. “La mia decisione comportò una severa punizione, poiché l’educazione delle ragazze era un crimine del regime in quel momento, ma io non solo ho continuato a educare le ragazze a casa mia, ma ho anche creato altre dieci scuole segrete, tutte assolutamente, improvvisate nella città di Kabul, grazie all’aiuto un gruppo di amici e colleghi”.
Suraya e i suoi “complici” hanno continuato nonostante le retate, nonostante gli arresti e le violenze: alla fine del 2002 erano già 300 le giovane donne che avevano un’istruzione e che non avrebbero più tanto facilmente essere schiavizzate.
“Quando le ragazze stavano frequentando la prima sessione della scuola segreta avevo l’impressione che il loro problema principale fosse la mancanza di accesso all’istruzione, perché non avevo ancora chiaro il quadro”, riflette. “Tuttavia, con il passare del tempo, ho capito che anche la mancanza di accesso alla giustizia era una questione che riguardava le esigenze educative delle donne”.
E allora, ancora una volta, con il sostegno di amici avvocati, Suraya si è messa in gioco e ha creato anche un piccolo spazio legale, per ascoltare le donne in difficoltà e raccontarle dei loro diritti, se pur minimi.
Quando nel 2002 è iniziata la guerra e sono arrivate le truppe della Nato, la donna ha fondato Voice of Women Organization, diventata a tutti gli effetti una ong, e per i due anni successivi ha continuato a insegnare nelle sue scuole casalinghe, anche se non più segrete, a Kabul.
Nel 2004 Suraya ha interpretato bene i segnali: la capitale, con la massiccia presenza straniera, tendeva a diventare più controllata e “civile” mentre le zone periferiche dell’Afghanistan rischiavano di rimanere indietro. Così ha deciso di trasferire la sede principale di Voice of Women nella più conservatrice provincia di Herat.
“Il mio obiettivo principale è quello di offrire accoglienza e consulenza a tutte le donne: a quelle rilasciate dal carcere, alle donne che sono fuggite da rapporti violenti, alle ragazze che sfuggono ai matrimoni forzati”, sottolinea. “Attraverso gli interventi dell’organizzazione, forniamo protezione legale e sociale, accesso alla giustizia e promozione della legislazione sui diritti delle donne ma non solo. Offriamo anche servizi sanitari, sviluppo delle capacità per l’emancipazione sociale e gruppi di formazione professionale per l’empowerment economico”.
Un grande risultato per un’idea nata dalla sofferenza e cresciuta in segreto, in una piccola stanza nei sobborghi di Kabul. Oggi, Voice of Women opera in 29 province dell’Afghanistan con 234 dipendenti. Ma il dato più significativo è questo: approssimativamente 3.409 donne hanno beneficiato dell’educazione attraverso corsi di alfabetizzazione, formazione professionale e life skills e sono donne che hanno in mano il futuro dell’Afghanistan, comunque andrà.
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