Pare l’annuncio d’un ritiro, ma in realtà è l’annuncio d’un rinvio del ritiro: il presidente Joe Biden ha deciso che tutte le truppe statunitensi lasceranno l’Afghanistan entro l’11 settembre 2021, per quello che sarà il 20esimo anniversario dell’attacco all’America condotto da al Qaida nel 2001. Fu il prologo dell’invasione dell’Afghanistan, il 7 ottobre, e del rovesciamento del regime dei talebani, che dava accoglienza e protezione ai campi di addestramento dell’organizzazione terroristica di Osama bin Laden, veri e propri “santuari”.
Il piano Biden prospetta la fine di quella che doveva essere “la lunga guerra” contro il terrorismo ed è divenuta la “guerra infinita”, la più lunga mai combattuta dagli Stati Uniti. E pone un obiettivo che sia Barack Obama che Donald Trump non riuscirono a raggiungere: lasciare l’Afghanistan.
Gli accordi conclusi tra l’Amministrazione Trump e i talebani, negoziati senza il governo di Kabul oltre un anno fa, prevedevano il ritiro completo degli oltre 3.000 militari Usa attualmente di stanza sul territorio afghano entro il primo maggio: ritiro, però, non praticabile, senza una riconciliazione tra governo afghano e “studenti islamici” che eviti ciò che tutti temono e molti ritengono inevitabile, cioè il ritorno al potere dei talebani non appena le truppe Usa e Nato avranno lasciato il Paese, profittando delle inefficienze, delle divisioni e della corruzione della politica afghana.
Lo stillicidio di azioni di guerriglia e di attentati da parte dei talebani, come pure da parte di miliziani dell’Isis e di terroristi di al Qaida, non è mai cessato. La conferma della decisione di sganciarsi dall’Afghanistan nasce dalla convinzione del team Biden che le maggiori minacce alla sicurezza statunitense non vengono oggi dall’Afghanistan, ma piuttosto “dall’Africa e da porzioni del Medio Oriente, la Siria e lo Yemen”, recita una fonte dell’Amministrazione citata dal Washington Post.
Il ritiro degli americani comporterà anche il ritiro delle circa 7.000 truppe Nato alleate partecipanti alla missione Resolute Support – il contingente italiano ha circa 800 uomini circa -. Nel conflitto, sono morti oltre 2.000 militari Usa (53 gli italiani) – dall’8 febbraio 2020 non ci sono più stati militari occidentali caduti in combattimento – e almeno 100mila civili afghani.
Sacrifici umani e colossali investimenti economici non sono serviti a costruire un Paese stabile, unito, democratico. La decisione del ritiro di Biden non è subordinata a nessuna condizione, “perché porre condizioni vuol dire creare i presupposti per restare in Afghanistan per sempre”. Non porle, però, può volere dire che ai talebani basta tirare in lungo i negoziati con il governo di Kabul, che non ha dalla sua né la forza né l’efficienza né la presa sull’opinione pubblica, per riprendersi poi il potere.
I talebani già controllano porzioni del territorio e minacciano di riprendere gli attacchi contro le forze occidentali, se la scadenza del primo maggio non sarà rispettata. I rischi sono evidenti a tutti: c’è il pericolo di consegnare il Paese alle ritorsioni dei talebani, considerato lo stallo e l’antagonismo dell’attuale “diarchia” afghana tra il presidente Ashraf Ghani e il suo principale rivale, e attualmente presidente dell’Alto Consiglio per la conciliazione nazionale, Abdullah Abdullah.
Confusione e incertezza regnano, in Afghanistan e negli Usa. Poche settimane or sono, il segretario di Stato Antony Blinken aveva prospettato una serie d’iniziative per disincagliare i negoziati tra governo e talebani, confermando però la scadenza del primo maggio per il “completo ritiro”. In una lettera a Ghani, Blinken scriveva che Washington voleva un cessate il fuoco “completo e permanente”. Tra le iniziative progettate, la richiesta all’Onu di riunire i ministri degli Esteri di Usa, Russia, Cina, Pakistan, Iran, India per “discutere un approccio unificato per la pace in Afghanistan”.
Ma poi, davanti alla mancanza di progressi, Biden s’è rassegnato a rinviare il ritiro di quattro mesi. Le trattative tra governo e talebani, apertisi in settembre nel Qatar, non sono finora approdati a nulla di concreto. La Turchia cerca d’inserirsi nei giochi e si offre di ospitare a Istanbul colloqui che – dice il ministro degli Esteri di Ankara Mevlut Cavusoglu – non sono “un’alternativa al processo in corso in Qatar”, ma dovrebbero “sostenerlo”. Pure la Russia ha ospitato una conferenza sull’Afghanistan.
Kabul assicura la sua presenza a tutti i tavoli, ma respinge l’idea di un esecutivo ad interim con la partecipazione dei talebani. La prospettiva di un abbandono dell’Afghanistan da parte delle truppe americane e alleate suscita timori in molti afghani, specie dalle donne, che possono perdere quanto, in fatto di emancipazione, hanno guadagnato in questi anni.
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