A sei mesi dalla firma dei cosiddetti Accordi di Abramo per la normalizzazione delle relazioni tra Israele e quattro Stati arabi, la promessa di nuove opportunità economiche supera le ambizioni di raggiungere la pace in Medio Oriente.
I vantaggi economici non potevano certo cancellare decenni di rivendicazioni arabe e di conflitto etnico, sociale e religioso. Rappresentano infatti un passo verso lo sviluppo senza assicurare giustizia, rischiando di consolidare semplicemente lo status quo, visto che i rapporti sottobanco tra lo Stato ebraico e alcuni Paesi arabi non sono certo una novità, lasciando la questione palestinese ai margini e non riuscendo per ora a contenere le ambizioni turco-qatariote e iraniane, alimentate dalla narrativa contro i soprusi israeliani.
Tuttavia, se la possibilità di integrare Israele all’interno del Medio Oriente e di smussare i conflitti interni e la competizione in corso nel Mediterraneo orientale, nel mondo sunnita, nel Golfo Persico e nel Corno d’Africa è ancora tutta da dimostrare, gli accordi costituiscono senz’altro un approccio più “attuale” da parte degli Stati Uniti e di conseguenza dell’Europa nella regione e rappresentano un elemento di novità in un quadro che appare tanto complicato quanto bloccato finché ostaggio degli opposti interessi.
Come “fare la cosa giusta per i motivi sbagliati”
In quattro mesi, tra l’agosto scorso e il gennaio di quest’anno, quattro Paesi membri della Lega araba – Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Sudan e Marocco – hanno avviato la normalizzazione delle relazioni bilaterali con Israele, aderendo ai cosiddetti Accordi di Abramo.
La firma di questi patti, non a caso seguita a stretto giro dalla conclusione (nominale) della crisi del Golfo, rappresenta un’importante opportunità politica e un potenziale nuovo capitolo sia nello sviluppo della regione mediorientale sia nell’approccio alla sicurezza dell’area da parte dei maggiori attori globali.
Annunciata dall’allora amministrazione statunitense Trump come uno “storico accordo di pace”, l’intesa ha molto meno a che fare con il conflitto israelo-palestinese e molto di più con le ambizioni strategiche delle medie e grandi potenze in Medio Oriente, nel Mediterraneo orientale e nel Golfo Persico.
Non si tratta affatto di un accordo di pace, né di una proposta concreta per una soluzione della questione palestinese o alle tensioni interne tra le varie potenze sunnite e quelle esterne con l’Iran ma del tentativo statunitense di ricomporre e semplificare un quadro vieppiù complicato per concentrarsi meglio su altri lidi.
Il superamento del rifiuto di alcuni Paesi arabi a riconoscere e ad avviare alla luce del sole relazioni dirette con lo Stato ebraico – principio su cui si è fondata la geopolitica mediorientale sin dal vertice della Lega Araba a Khartoum del 1967 basato sui “Tre no”: “nessuna pace, nessun riconoscimento, nessun negoziato” con Israele – riguarda infatti la questione palestinese solo strumentalmente, inserendosi invece nel più ampio contesto della competizione asimmetrica in corso nella regione.
La genesi stessa degli accordi, frutto anche delle necessità politiche contingenti degli attori coinvolti che hanno colto l’opportunità di raggiungere intese comunque storiche al di là di ogni altra possibile considerazione, non deve distrarre dal complesso insieme di effetti già prodotti e che esse determineranno soprattutto in futuro.
Firmando l’intesa, il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu ha portato a casa un risultato diplomatico memorabile in vista delle elezioni legislative appena concluse che, pur essendo terminate in un sostanziale pareggio, ne hanno confermato la natura di dominus incontrastato della politica dello Stato ebraico, nonostante i processi per corruzione e la mancata promessa di attuare un controverso piano di annessioni in Cisgiordania.
D’altronde, gli altri Paesi coinvolti, dagli Emirati, al Bahrein, al Sudan, al Marocco, hanno tutti ottenuto importanti vantaggi diplomatici, economici e militari da questi accordi, grazie agli incentivi politici, finanziari e commerciali assicurati loro dagli Stati Uniti, che sperano così di indurre ad aderire altri membri della Lega araba. Per l’amministrazione Trump invece, l’intesa è stato il primo vero risultato ottenuto in politica estera dal presidente, conseguito a poca distanza dalle elezioni e riconosciuto persino dal suo avversario Joe Biden, che ha mantenuto e promosso questi accordi anche una volta vinte le presidenziali, a dimostrazione della loro importanza strategica per Washington.
Insomma, come sostenuto all’epoca della firma dell’intesa dall’editorialista del New York Times, Thomas Friedman, “i maggiori cambiamenti in Medio Oriente si ottengono quando i grandi attori fanno le cose giuste per i motivi sbagliati”. In questo senso, il progressivo avvicinamento di Israele ad alcuni regimi arabi potrebbe favorire la composizione di un fronte unito volto a ridurre le tensioni nell’area, a semplificare il quadro delle sicurezza arginando i conflitti per procura, e a creare un effetto deterrente nei confronti di potenze emergenti come l’Iran.
Tuttavia, gli accordi non vanno solo guardati con il prisma del contenimento dell’influenza regionale iraniana, un obiettivo che accomuna da anni Tel Aviv e le principali capitali arabe, ma devono anche essere valutati alla luce della competizione nel Mare Nostrum, all’interno del panorama sunnita e del Consiglio di Cooperazione del Golfo, che coinvolge in particolare il Qatar e la Turchia, altro attore sempre meno vicino alle posizioni israeliane.
Un quadro così complicato necessita un aggiornamento della politica degli Stati Uniti nell’area, i cui obiettivi strategici si concentrano da anni sempre più verso l’Asia-Pacifico a danno del teatro Atlantico, riducendo il Mediterraneo allargato e il Golfo a una (seppur importante) periferia da stabilizzare, responsabilizzando gli alleati regionali e dialogando con gli avversari per meglio contenere le minacce locali e permettere così di distrarre ingenti forze in altri contesti ormai più rilevanti.
Un tentativo di aggiornare la Dottrina Carter?
Dalla Libia alla Siria, dall’Azerbaigian, all’Iraq, al Mediterraneo orientale fino al Corno d’Africa, i conflitti asimmetrici che contrappongono Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Egitto, Qatar, Turchia e Iran coinvolgono inevitabilmente non solo lo Stato ebraico ma anche Europa, Russia e Cina.
Se da tempo Abu Dhabi, soprannominata ormai la “piccola Sparta” e non a caso prima firmataria degli Accordi di Abramo, sta ponendo le basi per una maggiore influenza nel Mare Nostrum e in Africa orientale, soprattutto in funzione anti-turca, impegnandosi in vari teatri di conflitto come lo Yemen e intervenendo in iniziative infrastrutturali, energetiche e militari promosse dal Vecchio Continente nel Mediterraneo e da Israele in Africa, Riad comincia a temere le ambizioni del proprio alleato di lunga data, con cui anche il Cairo è apertamente irritato per l’appoggio concesso a un rivale storico come l’Etiopia in Tigray.
È in questo quadro che devono muoversi gli Stati Uniti, che hanno la necessità di garantire la stabilità e di frenare la competizione tra i propri alleati nell’area, aggiornando la cosiddetta “Dottrina Carter”, annunciata dall’allora presidente americano nel discorso del 1980 sullo stato dell’Unione.
Allora, Jimmy Carter prometteva di respingere “con ogni mezzo necessario, inclusa la forza militare”, qualsivoglia “tentativo da parte di qualsiasi forza esterna di ottenere il controllo della regione del Golfo Persico”, considerando tali atti “un assalto agli interessi vitali degli Stati Uniti d’America”, una posizione confermata nel 1981 anche dal suo successore Ronald Reagan.
Da allora è questo l’orizzonte in cui si muove Washington nella regione, una dottrina valida all’epoca degli shock petroliferi degli anni Settanta come dopo gli attentati alle Torri gemelle ma forse non più attuale nei termini indicati dall’allora presidente statunitense.
Quarant’anni fa, l’America dipendeva ancora dalle importazioni di petrolio per alimentare la propria economia, comprando quasi un terzo del greggio dal Golfo Persico, un dato rimasto tutto sommato inalterato anche oltre gli inizi del nuovo millennio. All’epoca della Guerra fredda, la necessità di tenere lontana l’Unione Sovietica dalle risorse energetiche e dagli approdi strategici nel grande Medio Oriente obbligava poi Washington a impegnarsi a fondo nell’area.
Il 2021 però non è il 2001 e tantomeno il 1981. Attualmente, gli Stati Uniti producono tanto greggio quanto ne acquistano dall’estero e solo poco più di un ottavo delle importazioni arrivano dal Golfo, comprandone ormai più dal Messico che dall’Arabia Saudita. Anche il ruolo della Russia nella regione è considerevolmente mutato: nonostante Mosca si sia posta come mediatore alternativo e attore disponibile a interventi limitati nell’area, per la maggior parte dei Paesi mediorientali resta un concorrente, sia nel mercato petrolifero che in quello del gas.
Le odierne necessità americane riguardano invece il contenimento delle ambizioni strategiche e commerciali della Cina, che dipende sempre più dalle importazioni energetiche e punta a creare una rete di collegamenti diretti tra Asia ed Europa, assicurandosi un alleato strategico nell’Iran, con cui ha appena firmato un accordo di cooperazione per i prossimi 25 anni. Il puntellamento della regione, realizzato anche per mezzo degli Accordi di Abramo, dovrebbe proprio a rinsaldare la posizione degli USA nell’area e tenere lontani eventuali concorrenti, anche nel caso di una possibile attenuazione dell’impegno americano.
Come ai tempi della Guerra fredda, quando Washington promosse un’alleanza solida in Europa, dove confrontarsi direttamente con l’Unione Sovietica, interessandosi al contempo alla stabilità di altre zone del mondo, a costo di sostenere regimi autoritari, così oggi con la creazione del Quad nell’Asia-Pacifico l’America cerca di responsabilizzare i propri alleati storici in altre regioni, chiedendo un maggiore contributo alla propria difesa per redistribuire le forze dove sembrano più utili.
L’avvicinamento dei Paesi arabi a Israele, il principale alleato americano in Medio Oriente e al contempo lo Stato tecnologicamente, militarmente ed economicamente più avanzato della regione, mira così a ridurre la dipendenza del Golfo dall’intervento diretto degli Stati Uniti, assicurando comunque un baluardo contro la penetrazione di altri attori in un’area dove gli interessi di Washington restano ancora molto forti.
La promozione dell’integrazione dello Stato ebraico all’interno del quadro mediorientale dovrebbe inoltre riportare la competizione “per procura” in corso tra i vari Paesi su un piano più gestibile, semplificando il quadro della sicurezza e permettendo un ritiro meno doloroso delle truppe americane da teatri come Siria e Yemen, dove il contributo di Washington ha finito per alimentare piuttosto che sopire le pulsioni anti-occidentali e le ambizioni iraniane.
D’altra parte, rispetto alla situazione odierna, l’America appariva in grado di tutelare meglio i propri interessi nella regione alla fine della Guerra fredda, quando non godeva ancora delle attuali basi militari in Bahrein, Kuwait, Qatar e Arabia Saudita e non vendeva loro miliardi di dollari di armamenti.
Nonostante i cambi di direzione alla Casa bianca, non è un caso forse che tra la fine dell’amministrazione Trump e gli inizi del mandato Biden, gli Accordi di Abramo, la composizione della Crisi del Golfo, la politica del bastone e della carota con la Turchia e la dialettica conflittuale con l’Iran appaiano per ora in continuità.
Al netto della cortesia istituzionale e degli annunci, l’America continua a chiedere ai propri alleati di spendere e spendersi di più per la propria difesa, intende rinegoziare il trattato sul nucleare iraniano invece di ripristinare l’accordo originale e resta impegnata in una revisione complessiva della propria postura militare nel mondo, impegnandosi sempre più nella competizione economica e tecnologica globale con Pechino.
In aggiunta alle considerazioni geopolitiche, l’economia riveste infatti un ruolo centrale nel nuovo approccio americano alla normalizzazione dei rapporti tra Israele e gli Stati arabi, un processo confermato a gennaio anche dal neo-segretario di Stato, Antony Blinken, e fortemente incentrato sulla concessione di incentivi politici ma soprattutto finanziari e commerciali ai Paesi coinvolti, come nel caso di Sudan ed Emirati Arabi Uniti.
Il sogno di un piccolo “Nuovo Medio Oriente” alla prova dei fatti
I vantaggi offerti ai partner coinvolti nella normalizzazione dei rapporti con Israele, moltiplicati dalla pandemia di Covid-19, non si limitano alle concessioni americane riguardo la rimozione del Sudan dalla lista degli Stati sponsor del terrorismo e al riconoscimento delle contestate rivendicazioni del Marocco sul Sahara occidentale, ma si allargano a miliardi di dollari di potenziali benefici economici.
Gli Accordi di Abramo intendono infatti promuovere l’evoluzione delle relazioni tra i Paesi coinvolti in una più profonda integrazione economica regionale, foriera di sostanziosi profitti, come mostra la sempre più profonda cooperazione tra gli Emirati Arabi Uniti e lo Stato ebraico, nonostante la scelta dell’amministrazione Biden di “riesaminare” la vendita di caccia F-35 ad Abu Dhabi, indicata da molti osservatori come il vero motivo della firma dell’intesa.
Grazie agli accordi commerciali firmati e a quelli ancora in cantiere, l’interscambio bilaterale tra Israele e gli Emirati Arabi è già stimato in almeno 2 miliardi di dollari, sia in termini di commercio di beni, compresi petrolio, metalli preziosi e materiali per la difesa, che di servizi, in campo sanitario, idrico, agricolo, tecnologico, informatico e finanziario.
Inoltre, le intese in corso di negoziazione prevedono fino a 10 miliardi di dollari di investimenti privati bilaterali, flussi turistici per migliaia di visitatori a settimana, il finanziamento da parte emiratina sia dei giacimenti di gas al largo delle coste dello Stato ebraico che delle imprese a proprietà mista in Israele nonché ingenti investimenti israeliani nei settori della tecnofinanza e del home banking negli Emirati. Le iniziative congiunte vedono allo studio persino il progetto di un oleodotto verso l’Europa, che dal Golfo raggiunga le città israeliane di Eilat, sul Mar Rosso, e il porto mediterraneo di Ashkelon.
I potenziali benefici di ulteriori accordi economici tra le parti potrebbero però essere ben maggiori. Secondo uno studio della Rand Corporation, l’ulteriore integrazione economica sotto forma di singoli accordi bilaterali di libero scambio, che abroghino i dazi, riducano le barriere non tariffarie agli investimenti e rinuncino ai visti e alle autorizzazioni al commercio estero, potrebbe comportare la creazione di 46 mila nuovi posti di lavoro e 24 miliardi di dollari in nuove attività nei quattro Paesi finora aderenti agli Accordi di Abramo.
Addirittura, un accordo di libero scambio multilaterale che coinvolgesse tutti e cinque gli attuali partner creerebbe fino a 150 mila nuovi posti di lavoro e oltre 75 miliardi di dollari di nuove attività economiche negli Stati aderenti. Allargando la platea a Paesi come Indonesia, Mauritania, Oman, Pakistan, Arabia Saudita e Uzbekistan nell’arco di un decennio sarebbe possibile creare fino a 4 milioni di nuovi posti di lavoro e 1.000 miliardi di dollari in nuove attività economiche, un risultato straordinario per nazioni per lo più in via di sviluppo.
Un tale scenario andrebbe a realizzare in parte il sogno tratteggiato quasi trent’anni fa dall’ex presidente di Israele, Shimon Peres, nell’opera “Il Nuovo Medio Oriente”. “I mercati comuni regionali riflettono il nuovo spirito dei tempi”, scriveva Peres nel 1993. “Alla fine, il Medio Oriente si unirà in un mercato comune, dopo che avremo raggiunto la pace, (…) e l’esistenza stessa di questo mercato comune promuoverà interessi vitali per il mantenimento della pace a lungo termine”.
Le opportunità economiche offerte dagli Accordi di Abramo possono forse invertire l’ordine degli addendi, cominciando dall’integrazione economica per poi arrivare alla pace? Solo il tempo può dirlo.
È significativo però come la trattazione scritta a due mani dall’ex presidente israeliano con l’accademico Arye Naor riservi ampio spazio a una grande opera, un canale tra il Mar Rosso e il Mar Morto, che ricorda un panorama simile descritto in un romanzo utopico di Theodore Herzl. “Alla fine del diciannovesimo secolo, si poteva sognare: è ora di trasformare il sogno in realtà”, si legge ne “Il Nuovo Medio Oriente”. Chissà che questo canale, che doveva far sembrare il Mar Morto come il Lago di Ginevra con cascate simili a quelle del Niagara, non si trasformi prima o poi in un nuovo oleodotto, come quello allo studio con Abu Dhabi verso l’Europa.
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