Ogni anno, dal 1995, uno dei più affidabili centri di ricerca specializzati in sondaggi di opinione degli Stati Uniti, il Pew Research Center, chiede a un campione statisticamente significativo di americani se pensano che l’aborto debba essere legale. Ogni anno, dal 1995, una netta maggioranza degli intervistati risponde, inequivocabilmente, di sì.
Quest’anno l’istituto ha condotto la propria indagine tra il 7 e il 13 marzo, prima che diventasse di dominio pubblico, grazie a una fuga di notizie senza precedenti, la bozza della sentenza della Corte suprema statunitense che potrebbe rovesciare la storica sentenza Roe v. Wade, che dal 1973 protegge il diritto all’interruzione di gravidanza a livello federale. In linea con gli ultimi vent’anni, ha fotografato la realtà di un Paese in cui il 61 per cento delle persone ritengono che l’aborto dovrebbe essere legale, del tutto o salvo limitate circostanze, principalmente temporali, e solo il 37 per cento ritiene che dovrebbe essere illegale in tutte le circostanze, o quasi. L’ironia della conformazione istituzionale degli Stati Uniti vuole che, a prescindere dall’orientamento pro-choice della maggior parte dei cittadini, da giugno milioni di donne statunitensi potrebbero trovarsi a vivere in uno Stato dove è illegale interrompere la propria gravidanza indesiderata.
Se Roe v. Wade dovesse essere effettivamente rovesciata – e al momento non sembrano esistere scenari in cui i sei giudici conservatori che hanno votato per annullarla, e che spesso sono stati nominati alla Corte suprema proprio per annullare il diritto all’aborto, potrebbero tornare sui propri passi – sono 22 gli Stati dove l’aborto sarebbe immediatamente illegale. In alcuni di questi Stati, semplicemente, le leggi pre-Roe non sono mai state abrogate e tornerebbero quindi in vigore. In altri casi, si tratta di cosiddette “trigger law”, introdotte negli ultimi anni per entrare in vigore molto velocemente nel momento in cui il diritto all’aborto non fosse più garantito a livello federale. Altri quattro Stati – Florida, Indiana, Montana e Nebraska – di recente hanno cominciato a limitare l’accesso all’aborto, ed è molto probabile che lo bandirebbero del tutto, appena possibile. Tutto questo era ampiamente prevedibile. Fin da quando, in vista delle elezioni del 2016, Donald Trump ha scelto come proprio candidato alla vicepresidenza l’evangelico Mike Pence e ha cominciato a scagliarsi apertamente contro l’aborto, gli esperti e i movimenti pro-choice hanno avvertito che il momento della resa dei conti su Roe v. Wade era dietro l’angolo, e che ogni giudice appuntato da un presidente repubblicano alla Corte suprema sarebbe servito ad avvicinarsi un po’ di più al ribaltamento del diritto all’aborto. Avevano ragione.
Il caso che porterà alla cancellazione di oltre cinquant’anni di diritto all’aborto nel Paese si chiama Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization: la Corte suprema è chiamata a decidere sulla costituzionalità di una legge statale del Mississippi, introdotta nel 2018, che vieta quasi tutte le interruzioni di gravidanza dopo le prime 15 settimane dal concepimento – molto meno dei tre mesi previsti da Roe, e delle 24 settimane stabilite con la sentenza Planned Parenthood v. Casey, del 1992. La Corte avrebbe potuto non accettare il caso, facendo semplicemente valere il precedente di Roe e Planned Parenthood v. Casey, come è successo in passato, ma ha deciso di non farlo, cogliendo l’occasione per ottenere una vittoria politica a cui la destra americana anelava fin dagli anni Settanta.
Per farlo, il giudice conservatore Samuel Alito ha sostenuto che Roe v. Wade fosse «egregiamente sbagliata» fin dall’inizio. Non sarebbero i tribunali, ma la politica, a dover dirimere la questione dell’aborto: «lungi dal trovare una soluzione nazionale alla questione dell’aborto», ha scritto Alito su Roe, la sentenza «ha infiammato il dibattito e approfondito la divisione». «La conclusione inevitabile», secondo il giudice, «è che il diritto all’aborto non è profondamente radicato nella storia e nelle tradizioni della Nazione».
In una frase particolarmente memorabile dell’opinione, Alito afferma che «è il momento che si rimandi la questione dell’aborto ai rappresentanti eletti delle persone». Affermazione particolarmente aspra, dal momento che lo stesso diritto di voto è sotto attacco da parte dei repubblicani: lo stesso Trump, nel 2020, ha affermato che se negli Usa fosse più semplice votare, i repubblicani non sarebbero mai più eletti, e infatti il partito è in prima linea nel passare leggi che ostacolino l’accesso delle minoranze al seggio elettorale.
In tantissimi Stati saldamente in mano al partito repubblicano – che poi sono gli stessi Stati dove i diritti riproduttivi sono più sotto attacco – i collegi elettorali sono disegnati appositamente per limitare il numero di candidati democratici eletti col sistema maggioritario, nonostante a livello statale i voti per i democratici finiscano talvolta per essere quantitativamente più di quelli per i repubblicani. In questi Stati, non c’è appello al voto che tenga: le donne che ci vivono si troveranno soggette a leggi estremamente limitanti, che in alcuni casi non lasceranno nemmeno la possibilità di abortire in caso di stupro, incesto o pericolo di vita per la madre.
Nei giorni che hanno seguito la pubblicazione della bozza della sentenza, migliaia di persone hanno protestato in tutto il Paese a difesa del diritto all’aborto: oltre alle manifestazioni di fronte alla Corte suprema e alla casa nel Maryland del giudice conservatore Brett Kavanaugh, sono scese in strada persone da Seattle a New York, da Los Angeles a Denver. «Democratici, fate qualcosa!», è uno degli appelli che più stanno circolando: una risposta naturale al fatto che per anni si è ripetuto che far eleggere le persone giuste fosse l’unica via per far valere i propri diritti e cambiare le cose. Eppure, dal 1973 ad oggi i democratici non hanno mai passato una legge che proteggesse il diritto all’aborto non all’interno dell’ombrello del diritto alla privacy, ma in quanto tale. Ed ora, nonostante abbiano la maggioranza in entrambe le Camere e un proprio presidente alla Casa Bianca, continuano a dare l’idea di non avere una strategia per proteggere i diritti riproduttivi, se non quello di sfruttare l’indignazione per ottenere qualche voto in più alle elezioni di metà mandato, questo novembre.
«Con i legislatori impantanati, gran parte della risposta sui diritti all’aborto ricadrà su gruppi di medici e attivisti che stanno aprendo cliniche per l’aborto vicino agli aeroporti e ai confini statali, creando canali per distribuire pillole abortive negli Stati che le hanno vietate o che stanno pianificando di farlo presto, e raccogliere milioni per aiutare le pazienti a viaggiare fuori Stato per accedere alla procedura», raccontano Alice Mirana Ollstein e Megan Masserly su Politico.
Il che ci porta al cuore della questione. Le spiegazioni che si danno gli esperti sui motivi per cui la destra statunitense si è fissata così a lungo e così profondamente sul tema dell’aborto sono molteplici. Alcuni ritengono che per i repubblicani l’aborto sia il simbolo di un’intrusione del governo nella concezione tradizionale di famiglia dopo la rivoluzione sessuale che si vuole rovesciare. Altri sottolineano come il movimento antiabortista sia legato a doppio filo al panico dei nazionalisti bianchi, convinti che ci sia un piano di sostituzione etnica in atto che si può combattere obbligando le donne bianche ad avere più figli. Altri ancora sono convinti del fatto che i politici conservatori non abbiano davvero forti posizioni morali in merito, ma sventolino comunque il tema per ottenere i voti di chi invece le ha in modo da rimanere al potere.
Sulle specificità del movimento antiabortista statunitense e il suo rapporto con il partito repubblicano si possono scrivere, e si sono scritti, libri interi. Ciò che è certo – ed è certo non solo perché l’abbiamo già visto accadere nei nostri passati nazionali, ma perché sta succedendo in questo momento negli oltre venticinque Paesi in cui l’aborto è vietato – è che leggi più restrittive non portano a meno aborti, ma soltanto ad aborti meno sicuri, e quindi più mortali, per le donne che non vogliono portare al termine la propria gravidanza.
Secondo le stime, nel 2020 sono state 908 mila le statunitensi che hanno interrotto volontariamente la propria gravidanza. Tendono a scegliere l’aborto più le donne che hanno già figli che quelle che non ne hanno; quelle che hanno attorno ai vent’anni, quelle non sposate e con un’istruzione universitarie; quelle povere e appartenenti a minoranze etniche. Ma non si tratta di un’esperienza rara: secondo il Guttmacher Institute, un quarto delle donne americane avrà abortito almeno una volta entro la fine della propria età fertile. Per ognuna di loro c’è una storia personale, delle speranze e delle aspirazioni, dei calcoli più o meno sofferti. Ci sono le vittime di violenza sessuale e quelle che, semplicemente, non vogliono un figlio e si sono trovate dalla parte sbagliata delle percentuali sull’efficacia dei contraccettivi. Ci sono le donne che prendono medicinali tanto pesanti da non poter concepire un feto senza il rischio che sia deformato e quelle che non hanno il tempo o le risorse per crescere dignitosamente un altro figlio. Ci sono persone che hanno a malapena le forze per prendersi cura di sé. Qualsiasi sia la loro storia, una volta rovesciata Roe v. Wade, tantissime di loro si troveranno a dover fare calcoli ancora più difficili, a prescindere da quale sia il vero motivo per cui da cinquant’anni la destra si organizza per negare il diritto di scegliere cosa fare con il proprio corpo.
È il fatto di dover mantenere costantemente alta la guardia contro chi spende tantissimi soldi ed energie in campagne per limitare questo diritto – a casa propria e all’estero – ad accomunare il movimento pro-choice, a prescindere dal Paese. A livello mondiale, negli ultimi decenni la tendenza ha propeso prevalentemente verso la liberalizzazione dell’aborto: negli ultimi venticinque anni sono 50 i Paesi che hanno legalizzato l’aborto, a fronte di una manciata scarsa di Stati che hanno imboccato la strada opposta.
Secondo Ivan Tranfić, ricercatore della Scuola Normale Superiore di Pisa che si occupa di studiare i movimenti transnazionali mobilitati contro l’aborto e la cosiddetta “ideologia gender”, ci sono un paio di buoni motivi per pensare che l’apparente vittoria dei reazionari statunitensi – ottenuta soltanto grazie a una maggioranza nella Corte suprema, che non è disegnata per corrispondere alle posizioni politiche della cittadinanza – non rafforzi il movimento antiabortista globale.
Il primo è la sconfitta di Donald Trump, che nutriva forti legami internazionali con altri leader tendenzialmente illiberali e contrari all’aborto. Il secondo, forse meno intuitivo, è la guerra in Ucraina. «La Russia ha sempre avuto una posizione fermamente e apertamente ultraconservatrice e contraria all’aborto, ai diritti LGBTQ+ e a quelli delle donne. Ora che il cosiddetto Occidente si sta serrando contro la Russia, è un colpo molto duro per organizzazioni potenti come il Congresso mondiale delle famiglie, profondamente basate sulla collaborazione tra conservatori russi e americani», spiega. «C’è una certa crisi all’interno della destra radicale in questo senso».
«Penso, anzi, che la minaccia al diritto all’aborto negli Stati Uniti possa portare a una più forte mobilitazione da parte dei movimenti femministi all’interno dei Paesi in cui questo diritto è a sua volta sotto attacco», continua il ricercatore. «Un errore in cui non dovrebbero cadere, invece, è quello di inseguire la retorica conservatrice cominciando ad adottare a loro volta discorsi sul diritto o meno alla privacy o sui diritti del feto: quello che bisogna fare è chiedere di rafforzare le leggi sull’aborto già esistenti e i diritti delle donne in senso più ampio, anche in quei Paesi in cui non si percepisce un forte pericolo da parte di attori conservatori religiosi».
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