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    Io, manager libico, vi racconto come viaggiare dalla Libia è diventato un miraggio

    La seconda puntata del diario di Nancy Porsia su TPI racconta la trafila burocratica di un manager libico, un tempo grande viaggiatore, per ottenere un visto per l'Italia

    Di Nancy Porsia
    Pubblicato il 22 Nov. 2016 alle 16:35 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 22:55

    DIARIO DI NANCY PORSIA. TRIPOLI, LIBIA — Mi viene a prendere dall’albergo sul lungomare di Tripoli. Sul sedile anteriore della macchina trovo dei fogli con un elenco di parole in italiano. Guardo Ahmed perplessa “Che cosa sono questi?”, e lui: “Fotocopie delle mie lezioni di italiano”. Gli chiedo come mai l’italiano, in fondo sarebbe meglio un corso di francese o meglio ancora di tedesco, sciorinando la teoria del paese con l’economia più forte in Europa.

    Ahmed mi risponde secco: “Ho trovato solo il corso di italiano a Tripoli. Una scuola privata. Meglio di niente”. Mi abbandono al facile umorismo da conversazione italo-libica: “Dì la verità, stai pensando anche tu di prendere la via del mare?”.

    Ahmed, manager di successo in una delle società più importanti nel paese, scoppia a ridere “Uallahi, mi costerebbe meno che chiedere un visto”. Ahmed ha girato l’Europa più di un europeo medio, per lui ottenere il visto è sempre stato una questione di un paio di settimane, anche meno. Ma nell’ultimo anno il visto Schengen è diventato un miraggio anche per lui.  

    Lo scorso giugno ha tentato la fortuna. Ha fatto richiesta presso l’ambasciata italiana a Tunisi, perché a Tripoli tutte le ambasciate sono chiuse e anche le attività consolari. Richiesta via email all’agenzia tunisina incaricata e pagamento da effettuare presso una filiale qualsiasi delle poste tunisine. Primo viaggio a Tunisi solo per effettuare un versamento di poche decine di euro, che però a un libico costa centinaia di euro perché a Tunisi deve arrivarci.  

    Ultra trentenne, sposato, con un figlio e un altro in arrivo, Ahmed ha richiesto il visto per lui e la sua famiglia. L’agenzia comunica ad Ahmed che deve aspettare tre mesi per un appuntamento in consolato. L’alternativa è pagare qualche migliaia di euro sotto banco per essere ricevuti entro la settimana. Ahmed si mette in fila e torna a Tripoli.

    D’altronde aveva detto di no alla corruzione anche quando aveva richiesto il passaporto blu, quello nuovo con microchip che da un anno è l’unico documento libico valido per viaggiare. Anche per il passaporto blu, il prezzo nel mercato delle milizie è di duemila dollari cadauno, altrimenti attese con tempistica da definire.

    Dopo tre mesi Ahmed torna a Tunisi, porta il suo passaporto e quello di sua moglie al consolato dove li trattengono per giorni, tempo necessario per vagliare la richiesta. Il ticchettio dei giorni che passano si fa pesante. Pensare che un tempo i libici passavano settimane in vacanza nel paese vicino, per godere della vita notturna e delle sue libertà, proibite a casa.

    Il sistema bancario libico è collassato, impossibile il trasferimento di soldi via banca per effettuare prelievi all’estero in valuta locale secondo il tasso di cambio ufficiale, dove un euro vale per 1,7 dinari libici. Solo pagando il dieci per cento alle milizie e ai loro amici all’interno delle banche si riesce a ottenere un trasferimento bancario. Per tutti gli altri non resta che il mercato nero, dove un euro costa 5,8 dinari libici. 

    Dopo due settimane, Ahmed riceve la notizia del diniego. Motivazione: rischio migratorio; prova: richiesta del visto per tutta la famiglia. 

    La frustrazione arriva alle stelle, mi racconta Ahmed mentre ci prendiamo un caffè sul lungomare di Tripoli. In due settimane di attesa a Tunisi, Ahmed ha speso circa duemila euro, all’incirca cinque mensilità del suo stipendio, nel mercato del cambio ufficiale sarebbe stata una sola mensilità. “Ho nominato un avvocato per il ricorso e ho speso altri mille dollari, ma ho ricevuto un altro diniego”.

    La sensazione di disagio come cittadina della fortezza europea non mi è nuova. Ogni volta che, all’interno delle carceri libiche, i migranti mi raccontano le loro storie, io penso al mio bel passaporto rosso, alla libertà di movimento che compro con un centinaio di euro in una qualsiasi questura in Italia.

    Ma la sensazione di disagio verso i libici, i miei amici, quelli che per me sono famiglia, mi è nuova. Abbasso lo sguardo. Poi provo a sdrammatizzare: “Allora che fai? Ti imbarchi?”. Ahmed sorride e mi dice: “Ne ho visti a migliaia di migranti passare da qui e tentare la sorte via mare. Non capivo come si potesse arrivare a rischiare la vita volontariamente. Oggi lo capisco perfettamente”.

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