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    Chi è il milionario anarchico diventato ricco con i bitcoin che combatte al fianco dei curdi e addestra hacker rivoluzionari

    Che cosa spinge un giovane criptomilionario a voltare le spalle ad ogni comodità e a mettere a repentaglio la propria incolumità nel contesto di un conflitto distante migliaia di chilometri dalla città in cui è cresciuto?

    Di Ludovico Tallarita
    Pubblicato il 22 Feb. 2018 alle 11:11 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 21:47

    Nella foto scelta dalla nota rivista finanziaria Forbes, Amir Taaki ha tutta l’aria di essere un ventenne qualsiasi.

    Questa notizia puoi leggerla direttamente sul tuo Messenger di Facebook. Ecco come

    Seduto al contrario con i gomiti appoggiati sullo schienale della sedia, indossa una t-shirt di cotone blu e al polso porta diversi braccialetti colorati. Un lieve accenno di barba compare sul suo volto. Oggi quel ragazzo ha trent’anni.

    All’epoca della foto, Amir aveva da poco co-fondato Dark Wallet, piattaforma che consentiva il totale anonimato a chi scambiava Bitcoin. Per questo progetto, Forbes lo aveva inserito nella lista dei trenta giovani esperti di tecnologia più brillanti del 2014.

    Essendo stato tra i più importanti sviluppatori della tecnologia inventata dal misterioso Satoshi Nakamoto nel 2008 – in seguito al bailout dei grandi istituti bancari americani – il suo investimento iniziale dovrebbe valere una piccola fortuna al giorno d’oggi. Secondo le stime più conservatrici, il patrimonio di Amir, primogenito di una famiglia scozzese-iraniana, si aggirerebbe intorno ai 6 milioni di dollari.

    Tuttavia, quando riesco a incontrarlo di persona e si siede su una panchina di un parco pubblico barcellonese, Amir, vestito completamente di nero e con un basco calcato sulla fronte, sembra tutt’altro che un uomo intento a godersi i frutti del suo lavoro.

    L’8 febbraio 2018 ha pubblicato il suo manifesto politico, rendendo nota la sua intenzione di aprire “nel giro di uno o due mesi” un’accademia per hacker rivoluzionari con sede nella capitale catalana.

    Un luogo, o come viene descritto nel manifesto, “un dojo, un tempio” dove gli hacker possano condividere tanto lo spazio fisico quanto quello ideologico.

    Il suo obiettivo dichiarato è quello di scardinare il sistema politico attraverso una sorta di “acceleratore per startup politicizzato”.

    Che le criptovalute e il mondo degli hacker siano realtà alle quali contribuiscono fortemente gruppi d’ispirazione anarchica non è in sé per sé una notizia fuori dall’ordinario.

    I Bitcoin, ad esempio, nacquero come escamotage per permettere alle persone di scambiare denaro, e quindi beni, oltre i confini del tradizionale sistema bancario, poiché quest’ultimo viene percepito come assoggettato alle logiche dello stato-nazione.

    Il fatto che uno dei massimi esponenti di questa comunità virtuale faccia perdere le sue tracce per diversi mesi, salvo poi rispuntare tra le fila delle milizie curde per difendere il progetto di autogoverno del Rojava, nel nord della Siria, è invece decisamente inusuale.

    Che cosa spinge un giovane criptomilionario a voltare le spalle ad ogni comodità e a mettere a repentaglio la propria incolumità nel contesto di un conflitto distante migliaia di chilometri dalla città in cui è cresciuto, ovvero Londra?

    Quella che Amir definisce “la più grande rivoluzione di questo secolo, e la prima vera rivoluzione di stampo anarchico”, senza esitare a porre la resistenza curda in Rojava alla stregua di quella di Barcellona durante la guerra civile spagnola.

    Se l’intenzione di Amir era quella di mettere le sue competenze tecnologiche a disposizione della popolazione curda del Rojava, utilizzando Bitcoin e tecnologie affini per creare un’oasi anarchica, la sua volontà ha dovuto fin da subito fare i conti con le realtà della guerra.

    Ha ricevuto in dotazione un fucile ed è stato arruolato nel YPG, l’Unità di Protezione Popolare curda, un gruppo armato legato a doppio filo al PKK, il partito dei lavoratori curdi che la Turchia considera un’organizzazione terroristica.

    Scampato a una scarica di mitra per il rotto della cuffia, Amir ha visto amici cadere sia sotto i colpi dell’ISIS che dell’esercito mobilitato dal Presidente turco Recep Tayyip Erdogan, quest’ultimo determinato a bloccare sul nascere ogni velleità di indipendenza sponsorizzata dai curdi.

    Non a caso, il pensatore citato a più riprese da Amir, in quanto ideatore del concetto del confederalismo democratico è Abdullah Öcalan, leader del PKK e unico detenuto sull’isola turca di Imrali da 19 anni a questa parte.

    È stato soltanto alcuni mesi più tardi che Amir è riuscito a lasciare il fronte e a dedicarsi alle sue intenzioni originali contribuendo, tra le altre cose, alla creazione di un curriculum per l’istruzione informatica, a un progetto di ricerca sull’uso di pannelli solari e alla costruzione di una fabbrica di fertilizzanti.

    Quattro anni più tardi, dopo aver lasciato la Siria ed essersi visto privare del passaporto dalle autorità britanniche per un anno, il progetto incentrato sul confederalismo democratico nel Rojava rimane a tutti gli effetti un pilastro del manifesto di Amir.

    Tra gli obiettivi della nuova accademia di hacker rivoluzionari c’è la creazione nel nord della Siria di una rete telefonica e telematica del tutto autonoma, che utilizzi tecnologie open source per sfuggire alla sorveglianza costante dell’intelligence turca.

    Il pensiero di Amir è chiaro: “Bisogna distanziarsi dallo sviluppo individuale di app sul mercato e pensare su scala più ampia per fornire infrastrutture” vere e proprie, in quanto al momento “le criptovalute non sono pronte” per reggere intere economie.

    Per essere uno degli hacker più brillanti in circolazione, Amir ha un’opinione poco ortodossa delle innovazioni scaturite dal mondo digitale: “la tecnologia da sola”, racconta Amir, “contribuisce all’alienazione dei singoli individui, creando sfere di interesse a colpi di algoritmi come quelli che prediligono la comparsa di determinate notizie quando controlliamo il nostro account su Facebook”.

    Il risultato è che milioni di persone finiscono per vivere all’interno di bolle iper-individualizzate, senza rendersi conto dell’esistenza di un pensiero diverso dal proprio.

    Basti pensare alla ”sorpresa” di tanti cittadini britannici durante il referendum sull’uscita dall’Unione Europea, o degli americani il giorno dopo l’elezione di Donald Trump.

    “Ogni volta che concepiamo una nuova tecnologia arrechiamo un danno all’umanità,” dice Amir, che vorrebbe dedicare una maggiore attenzione alla componente sociale del progresso.

    “Internet è una gigantesca macchina per la creazione della cultura di massa”: se all’inizio gli hacker pensavano che sarebbe servito ad aumentare la libertà di pensiero, secondo Amir oggi la rete contribuisce all’emarginazione del pensiero anticonformista.

    Conscio del fatto che il suo progetto rivoluzionario con sede a Barcellona possa attirare l’attenzione poco amichevole da parte delle autorità di più di un paese, Amir non ha dubbi: bisogna che sia la storia a giudicare l’azione di uomo, sostiene parafrasando la frase pronunciata da Fidel Castro durante il processo agli assalitori della caserma Moncada, nel 1953.

    Amir è granitico nella sua fede: “mi fermerò soltanto quando sarò morto”.

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