Presidente Massolo, questo numero della nostra rivista vuole provare ad analizzare i temi chiave del 2024. Che anno sarà?
«L’anno che verrà sarà caratterizzato da diverse fenomenologie: la prima è l’evolversi delle guerre in atto, in particolare Ucraina e Medio Oriente, che sono accomunate dal fatto di poter essere mitigate, ma non risolte, visto che si tratta di crisi che si protrarranno per lungo tempo. Questi due conflitti nel 2024 dovranno essere gestiti, anche se non sarà facile. Al tempo stesso hanno dinamiche diverse: la prima guerra porta allo stallo, la seconda, quella in Medio Oriente, può portare potenzialmente e sperabilmente a un nuovo dinamismo della regione. Queste sono le scommesse principali che ci accompagneranno nell’anno in arrivo. Un altro tema sarà quello di coniugare la transizione energetica con le esigenze di economie in difficoltà. E ancora l’esigenza di gestire i flussi migratori e tenere sotto controllo il rapporto tra Stati Uniti e Cina. In questo panorama si svolgeranno le campagne elettorali per le Europee e soprattutto per l’elezione del prossimo presidente americano, che potrebbe portare a forti discontinuità negli equilibri interni e mondiali attuali, specie in caso di vittoria di un repubblicano».
A proposito di Stati Uniti, anche se è ancora presto, possiamo dire che è probabile una vittoria di Donald Trump?
«Diciamo che non la possiamo escludere. Ad oggi Trump ha un’elevata possibilità di diventare il candidato repubblicano. A quel punto è abbastanza logico pensare che il candidato democratico sarà Joe Biden. Tra i due, Trump avrebbe quindi una possibilità concreta di tornare ad essere presidente degli Stati Uniti. È necessario però tenere conto di un elemento: bisognerà vedere quale sarà l’orientamento dei grandi finanziatori dei repubblicani, avendo un candidato dirompente come Trump».
Dopo l’assalto di Capitol Hill sembra assurdo pensare a una possibile nuova vittoria del tycoon.
«Quell’episodio, a prescindere della mano più o meno diretta che può averci messo Trump, è la dimostrazione plastica di cosa sono diventati gli Stati Uniti oggi: un Paese molto diviso e polarizzato, che adotta due metodologie che non erano proprie della politica americana, vale a dire la delegittimazione dell’avversario e la presa in ostaggio di ogni tema nel dibattito interno, compresa la sicurezza nazionale. Abitudini non rare ad altre latitudini, ma finora poco presenti nelle dinamiche americane».
Sembra che in America, come conferma un sondaggio del Financial Times, stia vacillando l’unità nei confronti del sostegno alla causa ucraina. Può essere un segnale sia per Biden sia per quelle che saranno le decisioni future in politica estera di Washington?
«Quello che sta succedendo nei riguardi della guerra in Ucraina – quella cosiddetta “fatigue” – ha radici lontane. Bisogna tenere conto di tre elementi: l’imminenza delle elezioni americane, un’oggettiva fatica per le opinioni pubbliche internazionali a tenere alta l’attenzione e la partecipazione nei confronti di conflitti che si protraggono a lungo, e poi c’è il fatto che la controffensiva ucraina non ha avuto successo ed è sospesa, tanto che c’è chi evoca la possibilità che in primavera ci sarà una nuova offensiva russa. Il punto è che sia Putin che Zelensky non sono in grado di arrivare a un accordo negoziale. Il presidente russo perché ha fallito fin dall’inizio dell’invasione, non riuscendo a installare un governo fantoccio a Kiev e ora ha bisogno di salvare la faccia in qualche modo. E Zelensky perché non può fare nessun passo indietro dopo i massacri subiti, come quello di Bucha. Tutti e due, quindi, aspetteranno i fatti e gli sviluppi sul terreno».
Quale può essere l’evoluzione del conflitto?
«Allo stato attuale sul terreno c’è una situazione di stallo, che non sembra possa cambiare a breve. Sta infatti mutando il paradigma: non si dice più “aiutiamo gli ucraini a vincere”, cioè riconquistare tutti i territori occupati dai russi. Perché è un’ipotesi che – come abbiamo visto sul campo – non si realizzerà. Ora si dice “aiutiamo a metterli in sicurezza”, cioè, anche se nessuno lo ammette, significa che un 15-20% del territorio ucraino resterebbe alla Russia».
In che modo si metterebbe in sicurezza l’Ucraina?
«O attraverso il suo ingresso nella Nato – ma bisognerebbe prendere una decisione entro il 75esimo anniversario dell’Alleanza che si svolgerà nei prossimi mesi a Washington – oppure armando l’Ucraina, facendola diventare un boccone indigesto per l’invasore russo. È sempre la situazione sul campo a determinare cosa accadrà. Un risultato che potrebbe prodursi nei fatti potrebbe essere quello di rispolverare il modello della divisione tra Germania Est e Ovest, cioè un ampio territorio ucraino che resta occidentale, e una parte molto più piccola, a Est, che Putin di fatto ha occupato. Come dimostra il caso tedesco, si può arrivare a concepire che questi due territori abbiano regimi di sicurezza diversi. Andrà altresì salvaguardata la prospettiva europea dell’Ucraina e da questo punto di vista la decisione del Consiglio europeo di avviare i negoziati di adesione con Kiev ha un valore strategico».
Quali possono essere le difficoltà in questo processo?
«Ci sono da considerare due aspetti: da un lato non sappiamo se e quando si voterà in Ucraina, ma è certo che Zelensky non accetterà nulla di meno di quello che lui chiama la vittoria. L’altro è che Putin ha perso la guerra: per congelarla ha bisogno di qualcosa che gli permetta di dire alla sua opinione pubblica che non è stato sconfitto. Il tutto in un contesto in cui la sicurezza torna ad avere un ruolo centrale nei bilanci nazionali dei Paesi europei».
Crede che Biden e l’Occidente abbiano esaltato più del dovuto la figura di Zelensky?
«È stato corretto per preservare l’ordine e il diritto internazionale, per cui non si poteva far altro che prendere le difese dell’aggredito. Poi come dicevamo è sempre il terreno di battaglia a determinare gli esiti. L’importante sarà comunque non attenuare troppo lo sforzo e il flusso degli aiuti, se vogliamo preservare un’Ucraina viabile e integra nella misura del possibile».
Tempo fa Carlo De Benedetti in un’intervista mi disse che la Nato dovrebbe essere rivista. Lei che ne pensa?
«La Nato aveva attenuato la sua identità per il venir meno del nemico dopo la caduta del muro di Berlino. Adesso invece abbiamo ai confini orientali dell’Alleanza un Paese che ha aggredito uno Stato sovrano. L’esigenza di difesa è talmente forte che ha spinto Svezia e Finlandia a rinunciare alla loro tradizionale neutralità ed entrare nell’Alleanza atlantica, perché si sentivano minacciate. Questo è un altro degli elementi della sconfitta di Putin. Una Nato ancora più presente ai suoi confini».
Su Gaza la credibilità dell’Occidente, che resta un po’ alla finestra, rischia di essere minacciata?
«C’è stato un terribile atto terroristico, che potremmo definire un 11 settembre israeliano. Ne è seguita quindi una reazione legittima e pienamente comprensibile, che ha però creato una difformità di agende tra la comunità internazionale e Israele. Quest’ultimo punta soprattutto a decapitare Hamas e a ristabilire la deterrenza e la sicurezza e poi a liberare gli ostaggi. Questo terzo tema è invece quello più cogente per la comunità internazionale, messo al centro della propria agenda, insieme agli aiuti umanitari e alla gestione del dopoguerra. Più la reazione israeliana si fa dura e si protrae nel tempo, più queste due agende tendono a divaricarsi. Se vogliamo riprendere una forma di dialogo in Medio Oriente bisogna che i Governi si impegnino a tornare a far coincidere le agende. È quello che prova a fare il presidente Biden».
Il caso dell’Expo assegnato a Riad dimostra l’influenza di soft power dell’Arabia Saudita. Ritiene possa essere un grosso rischio da non sottovalutare?
«Credo sia un dato di fatto che le decisioni internazionali siano sempre più condizionate dalle risorse che si possono mettere in campo per perseguire le proprie finalità. In un sistema di relazioni internazionali che diventa anarchico, senza che nessuno da solo sia in grado di dettare i temi chiave, c’è molto più spazio per queste medie potenze emergenti, molto risolute nella loro azione, ricche di mezzi e che spesso non utilizzano modalità da democrazie europee. Questo dovrebbe essere argomento di dibattito: vogliamo che le determinazioni della comunità internazionale siano dettate unicamente dal volume delle risorse impiegate o che siano mediate da accordi, ridando linfa al metodo multilaterale? Questo è un tema sempre più attuale e su cui si dovrebbe riflettere».
Da un punto di vista europeo, il fatto di avere uomini politici pagati da Stati stranieri non democratici, non rappresenta una contraddizione?
«Innanzitutto il modo in cui si conduce oggigiorno la comunità internazionale va ben al di là del comportamento di singoli individui. Sono in gioco aspetti di fondo e più ampi. In secondo luogo c’è da dire che ci sono latitudini e latitudini: qualcosa che in un Paese può essere considerato non lecito e perseguibile, da un’altra parte è ammesso. Si può invece discutere sull’opportunità di ciò, ma questo viene lasciato alle valutazioni dell’opinione pubblica, oltre a quelle dei diretti interessati».
Nell’ultimo decennio possiamo dire che la diplomazia è a un punto morto?
«Resta uno strumento a cui non si può non ricorrere, anzi è necessaria quanto più i conflitti sono complessi. Essendo uno strumento, deve entrare a far parte di un sistema più ampio, che include la volontà dei governi di perseguire delle finalità politiche, l’intelligence, le alleanze tra gli Stati. La diplomazia in questo senso aiuta a trovare delle soluzioni, ma da sola non può essere dirimente».
Possiamo però dire che negli ultimi anni abbiamo assistito a un fallimento graduale dei servizi?
«No, non direi. Normalmente i governi chiedono alle proprie intelligence tre cose: contestualizzare fenomeni complessi, essere informati correttamente e al momento giusto, e cercare di cambiare le situazioni sul terreno. Quest’ultima è la richiesta sempre più crescente ma al tempo stesso più difficile da realizzare. Come per la diplomazia, l’intelligence è uno strumento, ma non l’unico a disposizione».
Summit come il G7, dopo l’invasione dell’Ucraina, hanno ancora senso?
«Assolutamente sì. Soprattutto perché il G7 è molto più aperto, sia alle democrazie asiatiche, sia per come avvengono le discussioni tra i leader, in maniera più diretta. C’è stata poi la scommessa del G20, per provare a coinvolgere i grandi Paesi emergenti, a cominciare dalla Cina. Ma è un formato sempre più difficile da gestire, perché ci sono interessi divergenti. Si è quindi ritornati a gruppi di Stati omogenei, non più come in passato nell’idea di un governo del pianeta, ma per farsi forza reciprocamente e presentarsi in maniera compatta nei confronti del resto del mondo. Si arriva così a una sorta di G7 plus per quanto riguarda l’Occidente, e al tentativo individuato dalla Cina dei Brics plus. Possiamo dire che, di fronte alla crisi del multilateralismo classico, il mondo procede per gruppi di Paesi».
Siamo quindi sempre più in un mondo anarchico, dove i Putin o gli Xi Jinping vengono visti come attraenti?
«Non è una realtà multipolare, se per multilateralismo intendiamo dei poli che si aggregano e si condizionano l’uno con l’altro. C’è una relativa compattezza occidentale e un Sud globale accomunato da una vena anti-occidentale, ma fatto da Paesi che si alleano solo sulla base di interessi contingenti. Stiamo uscendo da un ordine mondiale a guida dell’Occidente, con la supremazia del libero mercato, ma non siamo ancora né in un mondo a guida cinese o americana, né in uno davvero multipolare».