Mi piace pensare che Abdul, quel giorno, abbia lanciato a tutta velocità la sua auto-bomba sul checkpoint iracheno di Qayyara per disperazione e non perché fosse un esaltato. Sua madre, Ragiha, ne è sicura. Negli ultimi mesi, mi dice, era profondamente depresso: “tornava a casa e se ne stava stravaccato per ore sul divano, senza rivolgere la parola a nessuno”.
“Si capiva che non voleva più fare quella vita”, aggiunge Yayha, suo padre, che pure se l’era ripreso in casa, nonostante la vergogna provata quando aveva scoperto che il suo figlio più piccolo, di soli 17 anni, si era arruolato nell’Isis.
Sfogliamo assieme l’album con le foto di Abdul e vedo un ragazzo come tanti, vestito con cura e con un bel sorriso. Chissà se ce l’aveva anche quel giorno quando i soldati iracheni l’hanno crivellato di colpi, un attimo prima che si facesse esplodere. “Quando è successo?”, chiedo.
La mamma se lo ricorda bene perché era il terzo giorno delle celebrazioni per l’Aid, la festa del sacrificio. A tarda sera ha sentito una macchina che parcheggiava davanti casa e due barbuti hanno bussato alla sua porta, per annunciarle che suo figlio era diventato un martire. Le hanno consegnato una sorta di certificato e 400 dollari per fargli il funerale. “Avrei voluto rifiutarli – aggiunge – ma ci servivano”.
Sono ormai più di cento i kamikaze utilizzati dall’Isis per frenare l’offensiva su Mosul. Non penso che siano in Paradiso, come declama la propaganda jihadista. Però mi piace pensare che Abdul stia ora in un posto dove poter sorridere come una volta, libero finalmente da quel macigno che i suoi reclutatori gli avevano piazzato sul cuore.
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