Magari è colpa dell’adrenalina, che qui scorre a fiumi, ma mi pare che i media occidentali siano un po’ ammaliati dai tamburi di questa guerra – neanche fosse il canto delle sirene – e la celebrano in tutte le salse, perdendo però di vista le questioni di fondo che si agitano in quel fiume carsico mediorientale di cui l’Isis è solo una manifestazione di superficie.
La prova è che tutti danno un grande spazio all’avanzata irachena verso Mosul e pochi si occupano invece di quello che sta succedendo nel resto dell’Iraq: a Kirkuk, nell’Anbar, anche a Baghdad. Eppure c’è l’Isis anche lì ed è tutto collegato, purché si leggano bene gli eventi.
Me lo ricordava oggi un analista curdo, secondo cui le ragioni che hanno permesso all’Isis di radicarsi in Iraq sono ancora ben presenti; e non è affatto detto, aggiungeva, che la riconquista di Mosul favorisca quella riconciliazione nazionale senza la quale il radicalismo sunnita, quello che ha prodotto al-Qaeda in Mesopotamia e poi l’Isis, avrà sempre una sua legittimazione.
Penso alle sue parole mentre vedo le bandiere sciite con l’effige dell’imam Ali sventolare per le strade dei villaggi sunniti strappati all’Isis qui nella Piana di Ninive.
Qualcuno, anche se a denti stretti, mi dice che i soldati di Baghdad entrano nei negozi, prendono la merce e non pagano. Boria da soldataglia, certo, che si ritrova a tutte le latitudini. Ma qui c’è di mezzo la deriva confessionale in cui è precipitato l’Iraq dopo la sciagurata guerra di George W. Bush e se nessuno protesta c’è il rischio che col tempo la liberazione si tramuti o venga percepita come un’occupazione militare in piena regola. E il malcontento allora non potrà che crescere.
Non mi ricordo chi diceva che vincere la guerra è più facile che costruire la pace. Ma in ogni caso aveva ragione
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