Il colpo di stato in Cile raccontato da Eduardo Mono Carrasco, artista e muralista: “Per la mia generazione, Allende era la primavera”
“Come si fa a dimenticare il giorno del colpo di Stato in Cile. Il fumo nero che esce da La Moneda, gli elicotteri, i militari, la gente in strada. È impossibile”. Héctor Carrasco è un artista. È arrivato in Italia più di quarant’anni fa, dopo avere preso parte alla resistenza contro la dittatura, quando è iniziata la diaspora cilena nel mondo. Durante la campagna elettorale per le presidenziali del 1970, usciva di notte e ridisegnava i palazzi di Santiago chiedendo di andare alle urne per sostenere Salvador Allende. Lo faceva insieme alla Brigada Ramona Parra, un gruppo di muralisti, i primi nel paese.
Il giorno in cui le forze armate guidate da Augusto Pinochet rovesciano con un colpo di stato il governo socialista di Allende, l’11 settembre 1973, Carrasco ha diciannove anni. Sta andando a scuola; è uno studente di pubblicità e disegno grafico in un istituto della capitale ma la mattina del golpe la materia della prima ora è ginnastica. Le lezioni saltano. “Commentavano che i militari avevano fatto qualcosa e ci hanno fatto uscire, ma senza dirci cosa stava succedendo”, racconta a TPI.
È in strada che si vede il tetto del palazzo presidenziale bombardato, dove Allende è morto dopo avere urlato ‘Viva il Cile! Viva il popolo! Viva i lavoratori!’ al microfono di Radio Magallanes. La giunta militare instaura un regime dittatoriale che rimane al potere per diciassette anni e mette fine all’esperimento politico del presidente socialista. Iniziano gli arresti indiscriminati, le torture disumane, le sparizioni. Gli oppositori politici gettati in mare dagli elicotteri, i desaparecidos.
“Non sono tornato subito a casa, come gli altri. Nella sede del comitato centrale della gioventù comunista, stavamo nascondendo la documentazione, le tessere di iscrizione”, ricorda Carrasco. “Una ragazza del gruppo aveva una vecchia macchina, abbiamo caricato tutto su e l’abbiamo portato via. Ma abbiamo trovato un posto di blocco: ci siamo salvati solo perché un militare veniva dallo stesso paese della donna che era con noi. In quel momento abbiamo capito che ogni cosa era cambiata”.
Nel periodo della clandestinità, Héctor diventa ‘Eduardo’. “Abbiamo continuato a usarli anche dopo, i nomi che ci siamo dati nel periodo della resistenza. Era diventata quasi un’abitudine, anche tra noi persone in esilio. Quasi nessuno in Italia conosceva il mio nome”. ‘Mono’, invece, è il soprannome con cui lo chiamano a scuola, quando inizia con la militanza: “la mia è una generazione che si è avvicinata presto alla politica”, racconta. “Sceglievi subito da che parte stare”.
Carrasco è il fondatore della Brigada Ramona Parra, un gruppo di muralisti, i primi in Cile. Percorrono il paese, e disegnano i muri, dalla fine degli anni Sessanta. Da una marcia contro la guerra in Vietnam, partita da Valparaiso e arrivata fino a Santiago, più di 120 km calpestati da attori, artisti, cantanti che attraversano la Cordigliera del mare.
“La brigada era formata da sette persone. Giravamo con una jeep di seconda mano, non avevano nemmeno i colori: usavamo l’olio della macchina, il catrame liquido. E disegnavamo sui muri, sulle pietre delle montagne”, ricorda. Durante la campagna elettorale per Allende, la Brigada dipinge i muri della capitale. Di notte, a piccoli gruppi, scrive sui palazzi il nome del futuro presidente e il numero da segnare sul foglio nella cabina elettorale.
Dopo la vittoria alle elezioni del 1970, “abbiamo iniziato a realizzare murales in tutta Santiago. Centinaia. E c’erano altri gruppi nel resto del paese. Eravamo tantissimi. La nostra è stata una forma d’arte che la dittatura di Pinochet ha distrutto completamente. Ne è rimasto solo uno, ha la firma di Roberto Sebastian Matta. Si chiama Il primo goal del popolo cileno, realizzato in un distretto poverissimo proprio per celebrare il risultato ottenuto alle urne. Ogni anno la dittatura lo copriva e noi lo disegnavamo di nuovo”. Ora, è stato restaurato e intorno hanno costruito una casa della cultura.
“Lavorare a un murale significava lavorare a un’idea di giustizia collettiva, al bene della comunità”, racconta Carrasco. “È la lezione di Salvador Allende: non tutto ha un valore economico. I suoi tre anni da presidente sono stati anni di speranza per un paese finalmente diverso, costruito secondo i bisogni di tutti, pensato per una collettività e non più per un’élite di persone. Allende era la nostra primavera”.
A Santiago, per mesi l’ambasciata italiana diventa il rifugio per centinaia di oppositori politici. Sono due i diplomatici che gestiscono la crisi: l’allora ambasciatore Tommaso de Vergottini ed Emilio Barbarani, un giovane funzionario della Farnesina di neanche 35 anni, poi diventato a sua volta ambasciatore, mandato a Santiago dall’Argentina quando è ritrovato il cadavere di Lumi Videla, una esponente del Mir (Movimiento de izquierda revolucionaria), l’estrema sinistra cilena. La villa diventa quasi una comune, dove si dividono i materassi e si preparano i lasciapassare per i richiedenti asilo. Sono oltre duecento le persone accolte e mandate fuori dal paese.
“L’ambasciata italiana era la sola aperta”, spiega Carrasco. “Fuori c’erano i militari e per entrare bisognava saltare il cancello. Solo alle otto di sera al cambio della guardia. Avevi cinque minuti, non di più. Quando sono tornato in Cile dopo l’esilio, sono andato a vedere il muro. Mi sono chiesto come sono riuscito a passare”.
Carrasco in ambasciata rimane tre mesi. Arriva in Italia nell’ottobre 1974. Prima Roma, poi Bologna e Milano. Continua a disegnare murales sulle pareti di scuole, giardini, palazzi. “Quando realizzo un murale, lo faccio insieme a chi vive nel quartiere. È un atto di bellezza condivisa. Crea appartenenza perché il murale diventa di tutti, non solo di chi gli ha dato corpo. È di chi vive in quella strada, chi lo vede quando esce la mattina “.
“È la stessa cura con cui l’Italia ci ha accolto, quando siamo andati via dal Cile”, dice Carrasco. “Era una madre. Aperta, solidale, amica. Racconta come eravamo, ma anche come possiamo ancora essere”.
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