Ha baciato la terra più volte, con commovente rispetto, e poi ha pulito con le mani la tomba del santo che era sepolto lì nel tempio e che i miliziani dell’Isis avevano provato a distruggere. Marwan è yazida e solo oggi è rientrato a Bashiqa, la sua città, finalmente strappata all’autoproclamato Stato islamico.
A dire il vero, questa liberazione era già stata annunciata, più volte: prima quattro giorni fa, poi tre, infine due giorni fa. Ma, come si sa, i proclami militari vanno presi con le pinze e forse, ogni tanto, bisognerebbe bacchettare i giornalisti che li veicolano a occhi chiusi, senza verificare.
Ma oggi si festeggia e non c’è tempo per le polemiche. Gli yazidi, che a Bashiqa costituiscono il 70 per cento della popolazione, hanno organizzato un rito solenne per riprendere possesso del loro tempio, profanato e poi distrutto. A farne le spese è una povera pecora, che viene sacrificata per il buon auspicio. E tra canti e preghiere, flauti e tamburi, la barba di Marwan è la più gettonata dai media accorsi in forze.
“In questa barba, che non ho mai tagliato, c’è tutta la sofferenza subita dal mio popolo”, mi dice, e intanto se la coccola lentamente, mentre con l’altra mano stringe il suo kalashnikov. E quando gli faccio notare che gli yazidi sono sempre stati un popolo pacifico, serafico mi risponde: “Certo, ma quando i diavoli scendono sulla Terra bisogna pur difendersi”. Come dagli torto?
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