Gli Stati Uniti vogliono porre fine ai paradisi fiscali in tutto il mondo e fissare una tassa minima a livello globale, in nome dell’equità e per frenare le delocalizzazioni, proteggendo però le multinazionali digitali. Nei prossimi due giorni la segretaria del Tesoro statunitense, Janet Yellen, incontrerà a Londra i ministri delle Finanze del G7 per raggiungere un accordo proprio su questo punto.
Il presidente Joe Biden considera la lotta ai paradisi fiscali e lo sforzo verso una maggiore equità del fisco una priorità della propria amministrazione, nonostante le resistenze in patria e a livello internazionale. All’interno del G7 insieme a Canada e Giappone, l’Italia si è già schierata al fianco degli Stati Uniti per imporre un livello minimo di tassazione alle aziende pari al 15 per cento, un piano al momento non ancora appoggiato da importanti partner come il Regno Unito.
Lo sforzo propugnato da Washington, secondo l’ex presidente della Federal Reserve, intende porre fine a quella “corsa al ribasso” in cui i Paesi riducono le proprie aliquote fiscali per invogliare le aziende a spostare sedi e profitti oltre confine. Così la battaglia di Biden per una tassa minima globale si combatte sia all’estero che in patria.
Convincere i governi delle altre maggiori potenze economiche planetarie a fissare un livello di tassazione minima a livello globale è fondamentale per Biden, che negli Stati Uniti intende aumentare le aliquote fiscali sulle aziende dal 21 al 28 per cento per finanziare i piani di ripresa e soprattutto i nuovi progetti infrastrutturali.
L’approvazione nel maggior numero possibile di Paesi di provvedimenti che impongano alle imprese di pagare le tasse indipendentemente da dove abbiano sede dovrebbe scoraggiare le società americane dal trasferire le proprie operazioni o dal registrare la proprietà intellettuale in Stati con aliquote fiscali più basse, disincentivando la delocalizzazione e favorendo indirettamente non solo il fisco ma anche l’occupazione interna.
Il raggiungimento di un accordo per una tassa minima a livello globale in seno al G7 non è certo, almeno non durante il vertice di Londra previsto il 4 e 5 giugno. Tuttavia, un avanzamento dei colloqui potrebbe favorire il negoziato in corso presso l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), dove Paesi membri come Irlanda, Ungheria e Repubblica Ceca con aliquote d’imposta sui redditi delle imprese inferiori al 15 per cento, continuano a opporsi ai piani dell’amministrazione americana per una global minimum tax.
L’intesa tra le sette maggiori economie mondiali potrebbe favorire l’adesione di altri Stati al progetto proposto da Washington, ma resta fondamentale convincere anche i Paesi più piccoli, soprattutto in Europa. Dublino, Budapest e Praga potrebbero infatti opporre il proprio veto in sede di Unione europea per impedire l’approvazione di tali misure a livello fiscale.
L’anno scorso, la Commissione europea aveva proposto agli Stati membri una revisione delle politiche fiscali comunitarie al fine di tenere il passo con l’economia digitale, ma i vari Paesi non sono stati ancora in grado di raggiungere un accordo. I governi d’Europa temono una riduzione della base imponibile a seguito della progressiva migrazione del commercio e degli scambi online.
Le aziende digitali possono infatti fare affidamento sulle proprie filiali in Paesi con basse aliquote fiscali per ridurre gli oneri tributari. La Commissione europea stima che queste imprese paghino in media un’aliquota fiscale effettiva pari al 9,5 percento rispetto al 23 percento delle aziende con attività tradizionali. Anche per questo urge trovare un’intesa al più presto, superando le resistenze a livello nazionale.
All’inizio della settimana, il direttore generale uscente dell’Ocse, Angel Gurria, ha annunciato che, in caso di esito positivo dei colloqui previsti nei mesi estivi in seno al G7 e all’Unione europea per una global minimum tax, a ottobre si potrebbe arrivare a un accordo che costringa effettivamente i Paesi membri dell’organizzazione ad applicare l’aliquota minima concordata per l’imposta sui redditi delle società. “Vi è stato un cambiamento a 180 gradi in materia fiscale da parte degli Stati Uniti che ci fa pensare che si arriverà a un accordo”, ha spiegato Gurria lunedì 31 maggio nel corso di una conferenza stampa a Parigi.
Sebbene gli Stati membri non siano legalmente tenuti a rispettare gli accordi presi in seno all’Ocse, generalmente i governi ne tengono conto nella redazione delle proprie leggi a livello nazionale. Un’intesa a favore di una global minimum tax metterebbe inoltre fine alla guerra commerciale transatlantica scatenata dall’amministrazione del presidente Donald Trump contro la Francia ed estesa da Biden ad altri Paesi, Italia compresa, in materia di tassazione delle multinazionali digitali.
Negli scorsi tre anni, Parigi aveva infatti imposto una tassa del 3 per cento sui ricavi di Facebook e di altre aziende digitali, nella speranza di promuovere un più ampio accordo in seno all’Ocse e in sede comunitaria sull’imposta minima dei redditi societari. La mossa dell’amministrazione di Emmanuel Macron aveva invece provocato la reazione della Casa bianca, secondo cui solo gli Stati Uniti sono essere autorizzati a tassare le società americane.
La presidenza Trump aveva annunciato l’imposizione di tariffe doganali su 1,3 miliardi di dollari di beni provenienti dalla Francia, inclusi cosmetici e accessori per l’abbigliamento, sospendendo però a gennaio tali misure. La disputa è poi proseguita anche con Joe Biden, che ieri ha sospeso i dazi imposti per ritorsione alla web tax su circa 2,1 miliardi di dollari di merci provenienti da Italia, Austria, Regno Unito, India, Spagna e Turchia, concedendo altri 180 giorni di sospensione del provvedimento al fine di consentire il proseguimento dei negoziati.
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