«Se sono scappata? Sì, sono scappata. Non ce la facevo più. I carichi di lavoro erano diventati insopportabili. In catena di montaggio non potevo fermarmi un secondo. Non un secondo! Altrimenti si sarebbe impallato tutto. Sa cosa vuol dire non avere neanche il tempo di bere un sorso d’acqua?». Anna ha 44 anni e quattro mesi fa ha accettato da Stellantis un assegno da 70mila euro lordi per dire addio al suo posto di lavoro: operaia nella fabbrica di Mirafiori, dove oggi si producono la 500 elettrica e alcuni modelli Maserati. «È stata una delle decisioni più difficili della mia vita», sospira. «È vero che in un colpo solo mi hanno dato l’equivalente di circa tre anni di stipendio, ma io ho rinunciato a un contratto a tempo indeterminato. Di questi tempi, ci vuole coraggio…».
A Mirafiori lo scorso 19 luglio la Fiom ha organizzato la terza giornata di sciopero nel giro di un mese e mezzo proprio per protestare contro i «ritmi di lavoro troppo intensi». «Stanno svuotando la fabbrica mandando via persone, e appena c’è un po’ di produzione da fare pretendono che chi è rimasto faccia il lavoro doppio», attacca Edi Lazzi, segretario torinese delle tute blu cigielline.
Novecento chilometri più a sud, fuori dallo stabilimento Stellantis di Pomigliano d’Arco, raccogliamo lamentele analoghe. «Per le stesse vetture prima avevamo un minuto e 6 secondi di tempo di lavorazione. Oggi bisogna fare tutto in 54 secondi. Massacrante», racconta Giacomo D’Agostino, 46 anni, operaio, dal 2008 costretto periodicamente a vivere con i 900 euro al mese della cassa integrazione. Anche D’Agostino di recente ha accettato dall’azienda una buonuscita da diverse decine di migliaia di euro per andarsene. «Con quei soldi aprirò un’attività tutta mia, un laboratorio alimentare», dice fra l’eccitato e il timoroso: «Forse ho fatto una scelta azzardata, non è stato facile, ma se andrà male saprò con chi prendermela: me stesso».
Sono circa 4mila i dipendenti che nell’ultimo anno e mezzo Stellantis ha deciso di pagare pur di liberarsene. Una truppa di operai, ingegneri e impiegati – pari quasi all’8% della forza lavoro del gruppo in Italia – hanno lasciato, e stanno lasciando in queste settimane, l’ex Fiat in cambio di un sostanzioso incentivo economico. Per chi lavora in fabbrica l’assegno oscilla tra i 55mila e i 75mila euro, per chi sta negli uffici l’importo varia a seconda dell’età, per chi è vicino alla pensione è previsto uno scivolo. «Per me si è trattato di una grande opportunità: grazie alla buonuscita ho potuto realizzare il sogno della mia vita: aprire un ristorante», sorride Giovanni Colangelo, 56 anni, che un anno fa si è dimesso dal suo ruolo di supervisor delle produzioni di Melfi (Jeep Renegade e 500x).
Ma dietro questa pioggia di soldi fatta scendere dentro le tasche dei lavoratori pur di convincerli a licenziarsi c’è la fase delicata che il versante italiano di Stellantis si trova ad affrontare. Malgrado i 3,3 miliardi di euro di dividendi staccati a inizio anno in favore degli azionisti (alla famiglia Agnelli-Elkann sono andati circa 500 milioni), il processo di integrazione tra Fca e il Gruppo Peugeot Psa pone questioni ancora irrisolte: con la fusione ci sono uffici a Torino e Parigi che da un giorno all’altro si sono ritrovati a sbrigare le stesse pratiche; ci sono catene di comando talvolta poco chiare; ci sono metodi di lavoro diversi da uniformare; e soprattutto ci sono costi da tagliare. Poi c’è la transizione all’auto elettrica – resa di fatto obbligatoria per legge dalla Commissione europea – che renderà presto inutili alcune attività, a partire, come ovvio, dalle lavorazioni dei motori a scoppio. E qui, sull’elettrico, l’ex Fiat sconta per giunta anni di ritardo rispetto a Psa (l’ex amministratore delegato Sergio Marchionne era contrario a investire sulle auto a batterie). A tutto questo va aggiunta la carestia di microchip sul mercato, che riguarda l’intero settore automotive e che dalla fine del 2020 ha frenato bruscamente la produzione, che già era ridotta ai minimi (fino a quattro anni fa in Italia si producevano un milione di vetture, oggi non si arriva a 700mila).
A fronte di tutte queste incertezze, Stellantis ha deciso che è tempo di fare una cura dimagrante. Nell’ultimo anno e mezzo l’azienda ha chiuso una lunga serie di accordi territoriali con i sindacati che hanno portato oltre 2mila dipendenti a licenziarsi dietro incentivo. Lo scorso 7 luglio, poi, è stata raggiunta una macro-intesa a livello nazionale che farà uscire altri 1.820 lavoratori. Su quest’ultimo accordo, però, i rappresentanti dei lavoratori si sono spaccati: la Fiom non ha firmato. «Qua si continua a navigare a vista senza avere prospettive a medio-lungo termine», sostiene Simone Marinelli, coordinatore automotive dei metalmeccanici Cgil. Per Ferdinando Uliano, suo omologo della Fim-Cisl, bisogna invece essere più realisti: «Questo sistema di incentivazione rientra in un discorso di sostenibilità sociale», dice. «Si tratta di affrontare adesso la questione dei cambiamenti in corso nel settore auto per evitare di ritrovarsi fra tre o quattro anni a pagare un conto salatissimo». Tradotto: meglio un incentivo all’esodo oggi che un licenziamento domani.
Del resto Carlos Tavares, amministratore delegato di Stellantis, è esperto di ristrutturazioni aziendali. Negli anni scorsi ne ha già portate a termine due – in Peugeot e Opel – in entrambi i casi puntando sull’abbattimento dei costi. Quando all’inizio del 2021 ha preso ufficialmente il volante della nuova multinazionale nata dalla fusione tra Fca e Psa il manager portoghese – 63 anni, ingegnere appassionato di rally – ha annunciato l’obiettivo di razionalizzare le spese per 5 miliardi di euro. È il “metodo Tavares”. E gli effetti pratici si sono visti presto negli stabilimenti e negli uffici italiani del gruppo, dove sono stati ridotti, ad esempio, i costi dei servizi di pulizia e di vigilanza.
«Oggi in Stellantis comandano i francesi (di Psa, ndr). Con loro si punta al risparmio», conferma Paolo (nome di fantasia), ingegnere uscito pochi mesi fa dagli Enti centrali di Torino con i prepensionamenti. «Dopo la fusione sono cambiate molte cose: ad esempio, prima ognuno di noi aveva la propria scrivania, la propria cassettiera, il proprio armadietto. Oggi si fa smart working a rotazione: c’è un monitor e basta, tu porti il tuo pc e ti attacchi. Non c’è una cassettiera, non c’è un posto dove mettere il proprio zaino. Sembrano sottigliezze, ma sono cose che negli uffici generano malumore». Un altro esempio? «Un tempo usavamo Microsoft, poi sono arrivati gli americani (di Chrysler, ndr) e siamo passati a Google, oggi i francesi hanno imposto di nuovo Microsoft: questo cambia il modo in cui si usa la posta elettronica, come si archiviano i file, come li si condivide. Inoltre nell’organigramma non si capisce ancora bene chi deve fare cosa. C’è un po’ di confusione, ecco».
Agli Enti centrali lavorava fino a pochi mesi fa anche Andrea (nome di fantasia anche il suo), 28 anni, ingegnere, dimessosi ma senza incentivo: «Non ero dipendente, ma solo consulente. Ho trovato un altro lavoro e, quando l’ho annunciato ai miei capi, mi è stata fatta verbalmente una controproposta molto invitante: assunzione a tempo indeterminato. Solo che poi le Risorse umano hanno bloccato tutto, dicendo che con la riorganizzazione in corso era stato tagliato il budget per le nuove assunzioni». «Gli ultimi tempi in Stellantis – prosegue Andrea – si respirava un clima di insicurezza e amarezza. Mi colpiva il fatto che gli incentivi all’uscita non venissero concessi solo a chi stava per andare in pensione ma anche a lavoratori under 40. È strano che un’azienda si privi di forza lavoro giovane. Il ritmo delle uscite era alto: due o tre dimissioni a settimana. E ogni volta che qualcuno se ne andava non entrava qualcuno di nuovo, ma il lavoro veniva redistribuito fra chi rimaneva. Un’altra cosa che mi ha colpito – conclude il giovane ingegnere – è che ad andarsene non erano solo semplici dipendenti, ma anche figure importanti del management». I nomi? Eccone due: Pietro De Biase, storico responsabile delle relazioni industriali, che a fine 2021 ha lasciato il gruppo dopo dieci anni; e Luca Civitico, responsabile Risorse umane, che all’inizio di quest’anno ha intrapreso una nuova avventura professionale.
«In quest’azienda non c’è futuro, non c’è programmazione», scuote la testa Luigi (nome di fantasia), operaio 54enne ancora in forza nello stabilimento di Pomigliano. «In vista della transizione all’elettrico dovrebbero iniziare quantomeno a farci dei corsi di formazione, invece si pensa solo a tagliare. Stiamo pagando sulla nostra pelle il ritardo notevole sull’auto elettrica che Fiat ha rispetto ai competitors».
Per ora in Italia la rivoluzione ecologica di Stellantis consiste nella 500 elettrica che viene realizzata da un paio d’anni a Mirafiori, in quattro nuovi modelli elettrici che dovrebbero entrare in produzione entro il 2024 a Melfi e nella fabbrica di batterie di Termoli, che inizierà a produrre nel 2026. Per il resto si sa poco, se non che Tavares – pur critico con la politica ultra-green della Commissione europea – è deciso a portare la quota di mercato elettrica del gruppo al 100% entro il 2030.
Intanto, i sindacati dei lavoratori e i rappresentanti delle aziende dell’industria automobilistica si apprestano ad archiviare come una grande delusione il governo guidato da Mario Draghi, con Giancarlo Giorgetti al ministero dello Sviluppo economico. Da mesi tutte le sigle del comparto – da Fiom, Fim e Uilm a Federmeccanica – chiedono unitariamente a gran voce misure urgenti per rilanciare e accompagnare alla riconversione una filiera che nei prossimi anni, con l’addio alle auto termiche, rischia di perdere qualcosa come 73mila posti di lavoro. Ma dall’esecutivo non è arrivata nessuna risposta tangibile: solo l’annuncio di uno stanziamento da 8 miliardi di euro in otto anni ma senza specificare quando e come i soldi saranno spesi. Le sigle avvertono: «Il rischio di de-industrializzazione di un settore chiave dell’economia italiana è concreto».
Ha collaborato Carmen Baffi
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