Smart working frontiera del futuro, ma a danno di aziende
Non è tutto oro quel che luccica. Se si parla di smart working, straordinaria opportunità dei nostri giorni per rendere il lavoro più agile e flessibile, orientato a una maggiore autonomia del lavoratore e a una crescente produttività, non si possono certamente trascurare gli effetti che una nuova organizzazione possono avere su quei comparti che nelle città e nei centri direzionali sono nati e vivono per la presenza di uffici pubblici, società di servizi, scuole. Ma siamo proprio così sicuri che lo smart working sia un bene per il tessuto economico della società? Il tema è balzato all’ordine del giorno nel dibattito politico quando si è aperto il confronto su come affrontare la fase 3 dell’emergenza Coronavirus.
L’Italia della ripartenza sta scoprendo che un’intera economia del territorio, fatta di commercio, ristoranti, bar, piccoli negozi, rischia di abbassare le serrande mentre migliaia di impiegati restano seduti alla scrivania di casa. I segnali della trasformazione, e la preoccupazione per il futuro, sono già evidenti a Roma, dove è stata vissuta la chiusura sistematica delle sedi dell’Enel, delle Poste, dei Ministeri, della Banca d’Italia e di centinaia di altre realtà. Tra i gestori dei locali della ristorazione c’è chi da inizio giugno ha denunciato una perdita dei due terzi della clientela, altri un calo del fatturato fino al 90/95 per cento. Patrizia Audino, titolare del Bar Pascucci Frullati in Via di Torre Argentina 20, davanti a una videocamera si è sfogata: “Smart working? Ma quale smart working, ve lo do io lo smart working. Siamo incazzati neri. Se non si lavora negli uffici, il commercio si ferma, non c’è denaro che gira”. È solo una delle tante voci.
A Torino Confesercenti ha lanciato perfino una petizione al governatore Cirio e alla sindaca Appendino per invitare le aziende a riportare i dipendenti in ufficio, segnalando presenze in pausa pranzo al 30 per cento del periodo pre-Covid. A Milano si è esposto sul punto il sindaco Beppe Sala, ancora per evitare “che dopo il virus non si contribuisca anche con scelte sbagliate ad evitare la situazione di diversi comparti economici”. Dalle parti di Fipe, la federazione italiana pubblici esercizi, è stato indicato un -50 per cento di media nazionale, con i locali aperti nei centri storici che starebbero pagando un dazio fino a picchi dell’80-90 per cento. Ma numeri pesanti sono spuntati anche per il settore dell’abbigliamento. Al termine del lockdown i negozi di moda hanno registrato un calo del 76 per cento, secondo i dati di Moda Italia-Confcommercio, per una caduta legata, hanno spiegato, soprattutto alla riduzione dei flussi delle persone, e quindi al lavoro da casa.
Il punto, secondo chi lancia l’allarme, non è perpretare una società basata sui consumi, ma di aiutare gli imprenditori in difficoltà a riorganizzarsi, a provare a reinvestire nella propria attività e adeguarla a un nuovo modello. Se crollano i consumi si fa concreto il rischio di licenziamenti, pagando i rischi di un cambiamento radicale avvenuto troppo rapidamente. Il nodo non è comunque solo semplicemente economico.
Lo smart working pone importanti interrogativi sulle relazioni umane e interpersonali, che rischiano di essere messe in discussione con il lavoro tra le mura domestiche. Chi in questi mesi ha cominciato a vivere per la prima volta l’esperienza del lavoro agile si trova a coordinarsi con colleghi che già conosceva da tempo, utilizzando competenze già maturate. Ma un discorso diverso va fatto per le generazioni che verranno. Il classico esempio è quello di una neolaureato che ha iniziato a lavorare durante la quarantena, pagando un conto salato in termini di socialità, di apprendimento informale. C’è una strada da percorrere anche sul piano normativo. Se da una parte lavorare da casa ha contribuito durante l’emergenza Coronavirus a mantenere vive le attività produttive proteggendo gli addetti dai rischi di contagio, nel medio e lungo periodo serviranno nuovi codici disciplinari per individuare le condotte sanzionabili legate all’esecuzione della prestazione lavorativa all’esterno dei locali aziendali.
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