Dottor Scordamaglia, come stanno la ristorazione e il mondo dell’alimentazione in Italia?
Male, grazie.
Perché?
Nel tempo del Covid stiamo rischiando dal punto di vista economico e occupazionale molto più di quello che non sembri.
Su quale terreno?
Il brutto è questo. Su diversi terreni, a diversi livelli. Dalla bistecca al vino di qualità, il futuro è appeso ad un filo.
Come mai?
Per motivi diversi. Il primo è il rischio drammatico di chiusura che stanno vivendo i nostri ristoranti. Il secondo è la burocrazia italiana, che in combinato disposto con la crisi economica causata dal virus aggrava i suoi effetti.
Lasciamo da parte per un attimo le bistecche, e parliamo dei ristoranti.
C’è poco da dire. Molti cittadini che oggi guardano le saracinesche abbassate pensano che riapriranno di certo, prima o poi. Che sia solo un problema di tempo, come è accaduto per gli altri negozi.
E non è così?
No, nulla è scontato, purtroppo. E molto dipende anche da quello che faranno il Governo e gli stessi cittadini.
Come funziona?
C’è unico filo invisibile che tiene insieme la filiera alimentare e quella della ristorazione.
Perché dice che il rischio è così alto?
Ripeto: uno su due chiuderà, o non riaprirà, se il quadro resta questo.
Chiariamo il motivo.
Il primo è banale: riguarda il sistema-paese, ma ovviamente colpisce un settore in ginocchio più degli altri. Non si riesce a scaricare “a terra” le risorse che vengono stanziate.
Esempio.
Soldi già stanziati che non arrivano. Pratiche che si fermano e si bloccano. Casse integrazioni per i dipendenti che in molti casi ancora non sono arrivate.
Questo problema riguarda i conti del passato, dei giorni della chiusura o anche il futuro?
Riguarda tutto, sia il passato che il futuro. Faccio notare subito un paradosso, per ora non risolto.
Quale?
L’obbligo di non licenziare i dipendenti scade, dal punto di vista della tempistica che si è determinata, il 17 agosto. Invece la copertura della cassa integrazione prevista dall’ultimo decreto scade a giugno.
Se non c’è un nuovo decreto, insomma, restano due mesi scoperti.
Esatto. Ma c’è lentezza anche sui piccoli prestiti, sull’accesso alla liquidità. Questo diventa ancora più grave nel momento in cui i 172 miliardi che arriveranno dall’Europa sono vincolati a condizioni che potrebbe non realizzarsi.
È una condizionalità, ma non cattiva.
Esatto. Questa condizionalità chiesta dall’Europa impone efficienza e modernizzazione del Paese, non vincoli di bilancio. E temo che avremo qualche difficoltà ad osservarla, se tutto continua così.
Luigi Scordamaglia, consigliere delegato di Filiera Italia, è molto preoccupato per gli effetti della crisi nel mondo dell’alimentare. Il suo è più che un appello, un grido di allarme per quello che sta accadendo nella galassia Food dopo il lockdown. Piccoli grandi segnali di crisi – racconta a TPI – si stanno affacciando sulle tavole degli italiani.
Spieghiamo bene cosa sta accadendo ai ristoranti?
Certo. Molti pensano che siano solo un luogo dove si mangia.
E non è così?
Per nulla. In questi anni sono diventati un terminale decisivo nella filiera della produzione e del consumo. Il luogo dove si valorizzano maggiormente i prodotti di eccellenza della nostra filiera agroalimentare.
E dalla riapertura sono costretti a lavorare con capacità ridotta.
Più che ridotta. I posti a sedere sono stati ridotti di almeno un 60% e i costi sono più che raddoppiati. E ricordiamo che se le misure di distanziamento oggi sono state corrette rispetto alla versione iniziale, ancora più penalizzante, lo si deve all’azione decisa delle Regioni, a cominciare da Emilia-Romagna e Veneto.
Ricordiamo perché.
Gli scienziati del Comitato tecnico-scientifico, che in questi mesi per non sbagliare hanno sempre più alzato l’asticella, avevano previsto delle distanze di sicurezza impossibili che avrebbero portato alla chiusura del 90% dei locali. Distanze che alla luce dell’attuale evoluzione del virus sarebbero state assolutamente ingiustificate.
Poi i presidenti hanno fatto opposizione.
In una memorabile nottata che, alla vigilia delle riaperture, ha quantomeno cancellato le misure più inapplicabili, come i 4 metri quadri a cliente.
Risultato?
La situazione è migliorata, ma di poco. I ristoranti hanno oggi una capacità di accoglienza che è mediamente ridotta al 40% del passato.
Il che è un problema strutturale.
Senza dubbio. Anche la più sana delle aziende, con un potenziale massimo di accoglienza ridotto di almeno il 60% e con costi di gestione aumentati rischia la chiusura.
Tuttavia quelle misure di sicurezza non sono imposte per sempre.
Me lo auguro. Anche perché dopo le riaperture, malgrado una ingiustificata campagna allarmistica che ha indicato i ristoranti come generatori di movida e di rischi, non è assolutamente successo nulla.
Parla di contagi.
Non sono io a parlarne, ma i medici in prima linea nei principali ospedali del Nord Italia che non ricoverano più neanche i pazienti più anziani.
Quindi lei chiede una revisione delle misure?
Senza dubbio. Le misure adottate per i ristoranti e non solo sulla base dei nuovi dati non vanno mantenute comunque per inerzia. È necessario far capire agli italiani che si può tornare con tranquillità nei ristoranti e che distanziamento e mascherine non saranno misure da tenere sine die. Insomma dopo una campagna allarmistica, una campagna oggettiva e pacata di tranquillizzazione.
Lei dice: fate molta attenzione ai segnali che arrivano dai consumi alimentari. Perché?
Perché ci sono chiari segnali che sta drammaticamente aumentando quello che noi operatori del settore chiamiamo “Food social gap”.
Ovvero la disuguaglianza sociale nell’accesso al cibo.
Esatto. Bisogna dire grazie al governatore della Banca d’Italia per essere stato l’unico a denunciare questa diseguaglianza. I nostri indicatori ci rivelano dei dati molto preoccupanti.
Quali?
Parto da uno che può sembrare irrilevante: è aumentato di oltre il 40% il consumo di uova. Sa cosa significa?
Posso provare ad immaginarlo.
Quasi raddoppia un cibo che fornisce proteine a “basso costo”. Io leggo questo dato e lo collego immediatamente con un altro, molto preoccupante.
Quale?
Si è abbattuto drasticamente il consumo di pesce, frutta, verdura e carne nei tagli più costosi.
Lei mi sta dicendo che questa è la traccia di una dieta indotta dalla crisi.
Assolutamente sì, con l’aggravante che pochi potranno continuare a comprare qualità e molti dovranno invece rinunciarci. E ciò finisce col creare tensione sociale.
Mi dica un altro dato che lei legge in questo stesso modo.
Quanti ne vuole. Si arriverà in un autunno in cui si verificherà un ulteriore crollo dei consumi. È crollata del 40% il consumo di vini pregiati, ad esempio. E poi quello dei formaggi e dei salumi di qualità.
E lei come lo spiega? I negozi alimentari non hanno mai chiuso.
La risposta è in quello che le ho raccontato all’inizio: i ristoranti non sono solo un poderoso terminale di consumo, ma creano curiosità, notorietà, domanda di prodotti ed eccellenze.
Quindi, se io non vado più a cena fuori, non solo non consumo la bottiglia di – faccio un esempio – Amarone che consumerei quella sera, ma anche quella che consumerei a casa, perché ne ho un buon ricordo.
Esatto. Quindi è un doppio colpo per intere filiere produttive, quelle che lavorano sulla qualità.
Mi faccia un altro esempio di cambiamento di abitudini alimentari.
Beh, poi c’è la cosiddetta “sindrome da scaffale vuoto”.
Cioè?
È esploso il consumo di tonno e carne in scatola.
Ma questo perché? Non c’è un vantaggio di costo che spieghi questi consumi.
Esatto. Ma – guarda caso – durante l’emergenza è aumentato anche la quota di mercato del latte uht.
Cioè quello, cosiddetto, “a lunga conservazione”.
Quello. Allora lei metta in fila il tonno, la carne in scatola, e il latte UHT, e ha la sindrome dello scaffale vuoto: siccome ho paura di trovarlo vuoto faccio incetta di prodotti ad alto valore nutrizionale ma ad alta conservazione.
Anche se il rischio non c’era.
A parte qualche difficoltà logistica iniziale e grazie ai 3,6 milioni di lavoratori del settore, l’approvvigionamento di prodotti alimentari nel nostro paese non si è mai fermato.
Ecco perché il titolo ideale di questa intervista è: “Salvate il soldato Restaurant”.
Sì, come nel film di Spielberg. Salvarne uno significa salvarne molti. E in questo caso non parliamo solo delle 320mila famiglie di ristoratori e dei loro 1,2 milioni dipendenti.
Che già non sono poche.
Certo. Però, oltre a questo, c’è un effetto-domino preoccupante che colpisce le eccellenze dei consumi, e la parte alta della filiera agroalimentare. Che poi è una eccellenza italiana.
Cioè quello che noi esportiamo di più.
Esattamente. Un doppio effetto boomerang.
Quindi la prima proposta è di rivedere le metrature medie per i locali?
Ripeto: non è questione di metri o centimetri. Le misure adottate vanno cambiate quando i dati sul virus dimostrano che non sono più necessarie. E poi bisogna rimuovere gli ostacoli che non hanno consentito di far arrivare liquidità ai ristoratori.
Proviamo a spiegare perché.
Perché le procedure burocratiche previste sono state troppo complesse.
E poi?
Vuole un altro esempio di assurdo burocratico, stavolta di tipo bancario?
Certo, spieghiamolo.
L’ultimo decreto introduce due correttivi importanti al canale dei prestiti con garanzia di Stato.
A quali si riferisce?
All’innalzamento da 6 a 10 anni nella possibilità di rateizzazione, e all’elevazione dell’importo massimo erogabile da 25mila a 30mila euro.
Questa però è una buona notizia!
Attenzione. Non in questo paese, e non con il sistema burocratico che ci ritroviamo.
Ma perché?
Perché se tu hai già presentato, o stai presentando una domanda, la pratica non viene estesa in automatico.
Ovvero non puoi passare da 25mila a 30mila euro, e da 6 a 10 anni?
Certo, ma per farlo dovrai affrontare tanta nuova burocrazia.
Ma è una follia! Lo avevi appena fatto pochi giorni prima, la garanzia è dello Stato, cosa può essere cambiato?
Qui io vedo un’altra complicazione. Se non viene data alla banche una manleva sulla valutazione di credito, l’accesso al credito sarà sempre molto complicato.
Bisogna spiegare perché.
È evidente che in questo momento la maggior parte dei ristoranti non può avere i conti in perfetto ordine: sono cattivi pagatori.
Per le condizioni indotte dal Covid.
Certamente, visto che sono stati chiusi per mesi e oggi lavorano al 40% della loro potenzialità.
I suoi parametri sono pessimi.
È ovvio! Ha difficoltà a pagare le fatture, i mutui, e forse anche i dipendenti, molti dei quali dunque non hanno ricevuto nemmeno il primo giro di cassa integrazione.
Che pasticcio.
Il primo giro di cassa integrazione tarda ad arrivare, e il secondo potrebbe lasciare scoperto due mesi estivi per la tempistica prevista dal decreto. Questo significa che ci sono dei lavoratori e degli imprenditori molto esposti.
Ed è in questo scenario che si arriva al rischio “saracinesca”.
Perché il pensiero nero che attraversa la testa di molti è: se devo riaprire, con un’attività ridotta al 40%, uscendo dalla cassa integrazione, riattivando tutti i costi, avendo sul groppone tutti i debiti, e con una capacità di spesa del cliente ridotta, tanto vale restare chiusi.
La riforma della burocrazia rimane sempre la prima priorità.
Assolutamente sì, ma ci vuole coraggio per portarla a termine fino in fondo. Bisogna eliminare innanzitutto il terrore della firma per il funzionario pubblico e il presidente Conte ha cominciato a lavorarci, ragionando su una possibile modifica del reato di abuso di ufficio e di responsabilità erariale. Ma sono cominciate le proteste.
Da parte di chi?
Di tutti, dalla Corte dei Conti ad alcuni partiti, tutti vogliono un’Italia più efficiente a parole ma nessuno vuole rinunciare a nulla.
Ci manca l’ultimo anello di questa catena burocratico-alimentare: la bistecca.
Eh…. davvero è l’ultima perla.
Perché?
Con il Ministero della Salute si stava lavorando ad alcune linee guida volontarie per migliorare ulteriormente, rispetto a standard già elevati di partenza, le condizioni di allevamento del nostro Paese. E invece improvvisamente ci siamo trovati con 26 pagine di requisiti del Ministero che, da facoltativi, sono diventati non solo obbligatori ma precondizione per ottenere premi comunitari della PAC.
Tutto questo solo per la bistecca italiana?
Sì, perché negli altri Paesi nessuno ha prodotto un simile parto normativo. In Francia, per intenderci, sono rimaste solo poche prescrizioni di una solo paginetta.
Ma da noi c’era una emergenza che giustificasse questo intervento.
No, al contrario! Abbiamo una delle filiere più sicure al mondo.
Mi faccia un esempio.
Durante la crisi Covid, Trump ha adottato un ordine presidenziale per tenere aperti i macelli che rischiavano di chiudere a causa dell’alta incidenza di infezione. Noi, durante il lockdown, non abbiamo avuto niente del genere.
E questo perché?
Perché avevamo già dei protocolli di sicurezza molto solidi. Perché le lavorazioni erano più più attente, meno veloci. Perché quando si sono dovute rispettare le distanze di sicurezza tutto è stato più semplice. Lo sa invece cosa accade in America?
Me lo dica lei.
Le linee di lavorazione sono molto più veloci e al termine delle stesse applicano processi di decontaminazione chimica del prodotto da noi rigidamente vietate. Noi applichiamo invece standard di sicurezza che evitano le contaminazioni.
Oppure?
In Germania hanno avuto dei problemi con le cooperative che intervenivano nel ciclo produttivo della carne.
In che modo?
Queste cooperative passavano da un macello all’altro, lavorando con ritmi esagerati senza alcun distanziamento sociale.
E da noi?
Impossibile, anzi sarebbe un reato. La domanda è: sei già a questo livello e imponi altre 26 pagine di requisiti?
Me me dica uno.
Un bovino deve avere uno spazio adeguato con un numero ben preciso di metri quadri fissati per legge per assicurargli il massimo benessere possibile. Con il nuovo testo lo spazio per ciascun bovino viene legato allo specifico peso del singolo bovino: Assurdo!
C’è un ultimo aspetto da toccare: l’impatto del Covid sulla dipendenza alimentare.
In fase iniziale di emergenza abbiamo rischiato di interrompere l’approvvigionamento di prodotti alimentari, ad esempio la farina, per le difficoltà logistiche e di blocchi al Brennero.
È stato come per mascherine e guanti.
Non si può delocalizzare la nostra produzione.
Vagheggia una nuova autarchia?
Per carità! Io non ho nessuna nostalgia autarchica. Ma non si può accettare di dipendere completamente dall’estero.
E quindi?
Bisogna aumentare l’autosufficienza alimentare. Non privarsi di nessuna produzione essenziale in nome di qualche improbabile risparmio di scala.
Altrimenti resti senza guanti e senza mascherine quando tutto il mondo le cerca.
Esatto. Se mi metti la zavorra burocratica io chiudo. Se abbandoni determinate produzioni, domani potremmo restare spiazzati.
Cosa produce il Covid, nel breve periodo?
Introduce filiere più corte. Abbatte il primo pilastro della globalizzazione, che era la circolazione mondiale senza regole delle merci, condizionata solo dal fattore costo.
E nel lungo periodo?
L’approvvigionamento alimentare diventa fattore geopolitico condizionante.
E quale sarà il petrolio di domani?
(Sorriso). Questo chiunque lavori nel nostro settore glielo può dire senza esitazioni.
Cioè?
Secondo lei perché i cinesi si stanno comprando mezza Africa? Il nuovo oro è la terra, la risorsa più preziosa, e più esposta al consumo. La terra ritorna, o addirittura diventa, il vero bene rifugio del terzo millennio.
Perché?
È l’unica risorsa il cui valore senza dubbio è destinato a crescere.