In un lungo editoriale sul Corriere della Sera Pasquale Tridico, professore di Economia del Lavoro all’università Roma Tre e, soprattutto, consigliere economico presso il Ministero del Lavoro, ha spiegato “agli italiani” come funzionerà il piano – da lui ideato – per quello che definisce “contrasto alla povertà e attivazione nel mercato del lavoro”.
Tridico parla di “polemiche sterili” contro il reddito di cittadinanza, portate avanti da chi non ha letto e capito “nella sua interezza” il provvedimento che inserisce la misura “di reddito minimo in Italia”.
La sua digressione parte con importanti citazioni, da Oskar Lange a Amartya Sen e arriva fino al Papa. Addirittura – senza citarlo – fa riferimento alle battaglie del compianto costituzionalista Stefano Rodotà per spiegare (a ragione) come di misure come il reddito minimo parli espressamente addirittura la nostra Carta, agli articoli 2 (obbligo alla solidarietà) e 3 (rimuovere gli ostacoli che limitano libertà e uguaglianza impedendo lo sviluppo e la partecipazione di tutti alla vita del paese).
Il problema, quindi, non è nella teoria che sta dietro al reddito di cittadinanza, ma nella sua applicazione pratica. Perché, come dimostra Giuseppe De Marzo, economista e coordinatore della Rete dei Numeri Pari, realtà che tiene insieme decine di realtà sociali italiane a partire da Libera e dal Gruppo Abele, quello messo in piedi dal Movimento 5 stelle tutto è meno che una misura di sostegno al reddito.
Perché il reddito di cittadinanza del M5s non è un vero reddito di cittadinanza (in 9 punti) come sostiene Pasquale Tridico:
Una misura di sostegno al reddito deve essere individuale.
La misura del governo è familiare e non individuale.
Il beneficiario non va “vessato” attraverso stringenti contropartite e forme di condizionamento.
Sono state costruite norme e dispositivi sanzionatori che colpevolizzano e stigmatizzano i beneficiari trattandoli come colpevoli e come probabili approfittatori, arrivando ad ipotizzare pene sino a 6 anni di carcere.
Una misura di sostegno al reddito deve essere accessibile per tutti coloro che vivono sotto una certa soglia economica non inferiore al 60 per cento del reddito mediano del paese di riferimento.
La misura stabilisce una soglia di accesso che interviene solo sulla povertà assoluta – circa 4.340.000 sui 5 milioni complessivi – e non su tutti e 9,3 milioni che vivono al di sotto di una certa soglia economica (la platea di beneficiari è meno del 50 per cento degli aventi diritto).
Inoltre non individua interventi specifici come quelli volti all’affermazione dell’autonomia sociale dei soggetti beneficiari, compresi coloro che sono in formazione, così da garantire il diritto allo studio e per contrastare la dispersione scolastica ed universitaria che nel nostro paese è tra le più alte d’Europa.
Una misura di sostegno al reddito deve avere come baricentro la residenza e non la cittadinanza.
I beneficiari non sono tutti i residenti in povertà relativa, ma solo i cittadini italiani in povertà assoluta (e neanche tutti, come da punto 4) e una parte di coloro che sono nel nostro paese da oltre 10 anni.
Una misura di sostegno al reddito, come previsto dai Pilastri Sociali dell’Ue (citati anche da Tridico) deve prevedere il diritto a servizi di qualità oltre al beneficio economico.
Manca del tutto un’offerta di servizi sociali di qualità e non vi è traccia di una riforma del sistema di welfare che vada nella direzione necessaria a costruire un sistema integrato tra l’erogazione del beneficio economico e le altre misure di welfare sociale, così da definire un ventaglio di interventi mirati e diversificati a seconda della necessità delle persone.
La durata e l’ammontare del beneficio vanno garantiti “fino al miglioramento delle propria condizione economica”.
La durata e l’ammontare del beneficio vengono stoppati dopo 18 mesi con la possibilità di ripartire in futuro; sull’ammontare del beneficio, se calcoliamo che per il 2019 la cifra messa a disposizione è di 6,11 miliardi di euro, per poi salire a 7,77 nel 2020 e a 8,02 nel 2021, l’obiettivo dichiarato di portare tutti coloro che hanno un reddito inferiore alla soglia di 780 euro mensili appare impossibile da raggiungere.
Facendo dei calcoli la cifra media che spetta mensilmente a livello familiare sarebbe di 472 euro, a livello individuale di 156 euro al mese.
Il Rdc non va contrapposto all’integrazione sociale e alla garanzia a una vita dignitosa con l’obbligo all’integrazione lavorativa, così come previsto dalla risoluzione europea dell’8 aprile 2009 in cui si afferma che “il coinvolgimento attivo non deve sostituirsi all’inclusione sociale e chiunque deve poter disporre di un Rdc e di servizi sociali di qualità a prescindere dalla propria partecipazione al mercato del lavoro”.
La misura introdotta dal governo è invece fortemente legata a sistemi di workfare e non di welfare, incentivando assunzioni sotto-qualificate a costi ridotti per le imprese, dando la possibilità ai datori di lavoro di ricevere sgravi contributi se assumono un lavoratore che percepisce il RdC e non lo licenziano nei primi 24 mesi, tranne che per giusta causa.
Una misura di sostegno al reddito dovrebbe prevedere la necessità di incentivare la libertà della scelta lavorativa come misura di contrasto dell’esclusione sociale e della ricattabilità dei soggetti in difficoltà, così da garantire la “congruità dell’offerta di lavoro” e non “l’obbligatorietà del lavoro purché sia”.
La misura del governo prevede una fortissima condizionalità nei parametri che definiscono un’offerta “congrua”, imponendo così di fatto al beneficiario di accettare qualunque offerta venga proposta anche a grandi distanze dalla propria residenza, pena la perdita del RdC.
Una misura di sostegno al reddito prevede la necessità di rafforzare i servizi ed il sistema dei centri per l’impiego pubblici.
La riforma ed il rafforzamento dei servizi e dei centri per l’impiego è ancora in alto mare ed è sottofinanziata [Come abbiamo raccontato qui].
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