La Commissione europea ha presentato, come noto, l’atteso Recovery Fund “Next Generation Eu”, a integrazione del bilancio Ue per un totale di 1.850 miliardi di euro. Proposta notevole, da vagliare attentamente per modalità, ambizioni e strategia. Fra i punti forti c’è sicuramente la natura dell’ammontare: 750 miliardi, di cui 500 miliardi in sovvenzioni e 250 miliardi in prestiti:. Circa due terzi, in pratica, dovrebbero essere dei veri e propri sussidi a “fondo perduto”. Il tutto, chiaramente, se il piano dovesse passare senza modifiche: il condizionale è d’obbligo, visto che si tratta ancora solo di una proposta.
La struttura del Recovery Fund si divide su tre grandi binari: il sostegno dei Paesi membri, il rilancio dell’economia, e il rafforzamento di programmi già esistenti. L’Ue chiede investimenti funzionali, azioni per rilanciare l’economia e per sostenere piani coerenti con la strategia europea. Tale approccio rende necessari dei ragionamenti su come investire i fondi a disposizione. Esatto, la parole d’ordine è “investire”.
I pilastri dell’Unione europea puntano alla rivoluzione green, alla rivoluzione digitale e all’inclusione sociale. E gli investimenti, per buona parte, devono essere fatti seguendo queste tre grandi direttrici. Per accedere al Recovery Fund si dovrà presentare un piano nazionale per la ripresa, basato sulle priorità identificate attraverso il semestre europeo e con la Commissione che offrirà supporto tecnico per assicurare che i fondi siano usati nel modo migliore possibile. Insomma, i piani passeranno al setaccio, anche nella fase di attuazione: nessun trasferimento senza controlli, dunque.
Il vicepresidente della Commissione Valdis Dombrovskis ha specificato che i fondi stanziati dall’Ue saranno spalmati su più rate e non trasferiti in un’unica soluzione. D’altronde, quest’ultima pratica sarebbe tecnicamente impensabile. Il pagamento avverrà a scaglioni in base al piano presentato dal Paese interessato. Gli investimenti saranno quindi monitorati, così come sarà controllata la crescita dei paesi, con un occhio di riguardo ovviamente per quelli più in difficoltà. Fra questi, è lapalissiano, c’è l’Italia.
Se passasse il piano della Commissione Ue, all’Italia andrebbero, come anticipato, circa 172 miliardi. Qui si parte con la prima grande incognita. Come spendere questo ammontare senza precedenti che proviene dell’Unione europea?
Nel Belpaese molti hanno iniziato ad avanzare l’ipotesi di una riduzione delle tasse. Fattibile? Il commissario agli Affari economici, l’italiano Paolo Gentiloni – uno che l’iniziativa l’ha vista evolversi e nascere da vicino –, ha spiegato che saranno i singoli Stati a stabilire le gerarchie, ma ha chiarito anche che il semaforo verde che conta è quello di Bruxelles. Appare improbabile che la Commissione possa approvare un piano incentrato sulla riduzione della pressione fiscale. La parola d’ordine dell’Ue – la conditio sine qua non direbbero i latini – è “investimenti”. Devono essere investimenti mirati, congrui al progetto europeo.
In buona sostanza, sarà propedeutico al successo il muoversi con prudenza onde evitare bocciature. Bocciature che l’Italia, vista la non facile situazione, davvero non si può permettere. Ma andiamo per gradi. Il piano ha chiaramente una portata storica rilevante: rappresenta una svolta nelle relazioni economiche e internazionali.
Alessandro Aresu – consigliere scientifico di Limes e autore di Le potenze del capitalismo politico. Stati Uniti e Cina – commenta per TPI: “La proposta della Commissione europea è frutto, oltre che del lavoro degli uffici, della consapevolezza dell’ampiezza della crisi. Una consapevolezza che Francia e Germania condividono. La crisi economica della pandemia è molto più grave delle crisi precedenti, per la sua ampiezza, per le sue caratteristiche distintive, e per il momento in cui accade”.
“Basti pensare all’impatto su un settore chiave per l’occupazione e la tenuta sociale come l’automotive, già gravemente colpito dalla debolezza europea nell’auto elettrica”, prosegue l’analista. “Le filiere nazionali coinvolgono pienamente gli altri paesi, come mostrato dai richiami delle aziende automobilistiche tedesche alla situazione di Italia e Spagna già all’inizio di aprile”.
“Questa realtà dei fatti – sottolinea Aresu – si è tradotta in una proposta piuttosto ambiziosa, anche per l’orizzonte temporale della restituzione, e in cui non è stato perso tanto tempo prezioso, come avvenuto una decina di anni fa”, ha sottolineato Aresu.
L’analista di politica internazionale e saggista, invita però a tenere i piedi ben saldi a terra. “Anche se l’annuncio di cifre complessive ha un effetto sui mercati, può da ultimo disorientare le opinioni pubbliche, come del resto l’esultanza sul ‘grande risultato ottenuto’, perché i passaggi per giungere a un risultato definitivo non sono finiti e riporteranno in luce la ‘guerra degli stereotipi’ tra alcuni paesi europei”.
Fra i problemi, Aresu mette in luce quelli che potrebbero essere gli effetti collaterali sulle strategie internazionali nel reperire le risorse economiche per tale piano. “Tra le fonti di finanziamento – fa notare l’esperto di geopolitica – è possibile che l’annuncio di tassazione per le grandi imprese digitali aumenti la conflittualità con gli Stati Uniti, portando a trattative lunghe come quelle che hanno caratterizzato le misure francesi, in un momento in cui l’attacco politico ai giganti digitali è destinato in ogni caso ad aumentare”.
Per l’Italia si tratterebbe di ottenere la parte più grande, che nel prossimo bilancio europeo la porterebbe a diventare un paese “prenditore” (si perdoni il termine) anziché contributore: incassare cioè dall’Ue più di quanto versi. Un’inversione storica. Nei numeri, l’Italia sarà il Paese che riceverà più denaro in assoluto, con un cifra di circa 172 miliardi, pari circa il 9% del suo Pil.
A quelli che iniziano a fregarsi le mani è bene ricordare però, come detto in precedenza, che su ogni centesimo ci sarà la strettissima sorveglianza di Bruxelles, affinché le risorse abbiano un ritorno reale, e non vadano ad alimentare sprechi e spese di carattere elettorale, puntando invece su riforme che creino crescita su basi strutturali. Da dimenticare, quindi, quel concetto improduttivo del “dateci i soldi, ce la vediamo noi”. No, non sarà così.
Nel complesso, si tratta di una proposta molto ambiziosa e l’elemento del prestito di 500 miliardi di euro di sovvenzioni supera persino la proposta franco-tedesca. L’incertezza è ora sul dove la proposta in questa versione possa arrivare senza subire modifiche al ribasso dai paesi “frugali”, che ne vorrebbero ostacolare, o quantomeno emendare, la parte che prevede sussidi anziché prestiti. In primis Danimarca, Olanda, Austria e Svezia.
I negoziati – quelli veri, dietro le quinte – dovrebbero iniziare a breve con i mercati vigili su ogni singola dichiarazione di accordo e dissenso. I mercati, in buona sostanza, sono quelli che dovranno metterci il denaro. Ma qualora si riesca nell’impresa di portare questo piano intatto all’arrivo, come verranno rimborsati i soldi agli stessi mercati che prima li hanno prestati? L’idea è di non operare la restituzione prima del 2028, bensì entro una data molto più futuristica: il 2058.
Per evitare di dover chiedere agli Stati membri dei contributi di bilancio significativamente più elevati, la Commissione inizierà ad esplorare nuove vie per le proprie entrate: dalla tassa sulle grandi società a prelievi che colpiscano plastica, emissioni non ecologiche ed economia digitale. La Commissione prevede di raccogliere fondi prendendo a prestito sui mercati finanziari. Sì, ma come? Davvero è possibile reperire una somma simile? E e che reazione avrebbe sugli stessi mercati?
A tale riguardo Bepi Pezzulli, esperto di calibro internazionale di mercati dei capitali, traccia per TPI una linea di quello che potrebbe essere lo scenario: “L’Ue vive di trasferimenti. Di conseguenza l’Eurobond è strutturalmente più rischioso rispetto al Bund tedesco. I mercati prezzeranno il rischio politico. È presumibile che lo spread tra il Bund e l’Eurobond si attesti inizialmente attorno a 50 bp (0,50%)”.
“L’Euro è un asset di rischio – prosegue Pezzulli -. Non un bene rifugio come il Dollaro, il Franco svizzero e lo Yen. Nei mercati non c’è appetito per 750 miliardi di Eurobond. È da valutare se i consorzi bancari, sui cui bilanci devono transitare 750 miliardi di assets denominati in Euro, sono in grado di assorbire un collocamento di tali dimensioni”.
“Paradossalmente, il successo dell’Eurobond dipende dal fatto che innesca un arbitraggio, nella misura in cui i mercati vendono il debito sovrano per acquistare gli Eurobond. Questo autofinanziamento contiene lo spread con i futuri Bund post-Eurobond”, sostiene Pezzulli.
“Tuttavia, si forma un rischio endogeno, che i mercati vorranno prezzare. La lunga durata (2058) può innescare l’aumento del cost of funding tedesco. Il credit risk europeo è pagato dalla Germania. Nel caso dell’Ue, come scrive Luigi Zingales, ‘there is no place to hide’, ogni policy failure or financial failure diventa un onere per la Germania”.
Pezzulli conclude con quella che potrebbe essere la declinazione italiana sulla mossa del Recovery Fund. “Soprattutto da parte dell’Italia è necessario che le risorse trasferite siano spese per produrre effetti sull’economia reale superiori al costo di finanziamento per l’Unione europea. Se l’Italia, come ha sempre fatto, dovesse impiegare le risorse per finanziare la redistribuzione, si innescherebbe l’implosione dell’UE e sarebbe solo colpa dell’Italia”, mette in guardia l’esperto. “L’Italia riceve un enorme apertura di credito dalla Germania, ma dovrà effettuare riforme strutturali per migliorare produttività, crescita, tasso di occupazione e ridurre il debito pubblico”.
Secondo Emanuele Canegrati, senior analyst per BP Prime, “il piano della Commissione europea presenta luci ed ombre. Tra le luci, positivo il fatto che l’Europa abbia dimostrato di esserci, mobilitando una cifra considerevole, 2.400 miliardi di Euro ‘potenziali’, suddivisi in 4 pilastri finanziari (Next Generation UE, Mes, Sure e Bei) più le risorse del Bilancio europeo (1.100 miliardi) e con un piano dettagliato suddiviso in programmi d’intervento precisi con annesse spese per la ricostruzione”.
“I dubbi sono, invece, riferiti al lato delle risorse da reperire per finanziare il piano”, osserva Canegrati intervistato da TPI. “Tra queste, la Von der Leyen ha puntato molto sulle ‘risorse proprie’ da bilancio comunitario, ovvero su nuove tasse indirette comunitarie (possibilmente carbon tax, plastic tax e web tax), che per essere introdotte dovranno però comportare una ulteriore perdita di sovranità fiscale dei paesi membri. L’Italia sarà disposta a concedere questa maggior sovranità, considerando l’esistenza di una forte componente sovranista, sia nella maggioranza che all’opposizione?”.
Per il capo degli analisti della società di brokeraggio londinese, qualche dubbio viene sulla concorrenza con i titoli di Stato italiani. “L’altra fonte di finanziamento proposta dalla Von der Leyen è quella del ricorso al mercato attraverso l’emissione di ‘Supra-sovereign bond’. Per l’Italia – dice Canegrati – questo è pericoloso, perché con l’introduzione degli Eurobond si creerebbero strumenti di debito in grado di assorbire buona parte della domanda di titoli sovrani da parte degli investitori, con il rischio di frammentare ancora di più il già frammentato mercato dei sovereign bond europeo, con conseguente aumento del costo del debito per i nostri Btp, che allargherebbero ancora di più lo spread con i Bund tedeschi”.
“Tra le possibilità da considerare, vi è inoltre quella che, dopo essere stati emessi sul mercato primario, gli Eurobond possano essere acquistati, in un modo o nell’altro, dalla Bce sul secondario, creando così una monetizzazione indiretta dell’intera operazione. Di fatto, quello che sta facendo la Federal Reserve per finanziare il piano di intervento del Tesoro americano, in condizioni di mercato che non rendono i Treasuries facilmente collocabili sul mercato per importi elevati”, conclude l’analista.
Tornando alla natura del piano, Filippo Taddei, professore della Johns Hopkins University, ritiene che il Recovery Fund sia “un passo avanti importante per organizzare una risposta fiscale coordinata alla crisi”. “Il principale problema che risolve – spiega Taddei – è di sostenere la risposta fiscale di paesi che hanno poco, o nullo, spazio di bilancio, come l’Italia e, in futuro Spagna, Portogallo e Francia. Questo è nell’interesse europeo perché, a parità di risorse stanziate, una risposta fiscale condivisa e coordinata a livello europeo è più efficace”. “Lo è perché rende più efficace lo stimolo monetario della BCE e lo è perchè siamo tutti parte, in Europa, di catene integrate del valore della produzione”.
“Questa è la lezione dell’economia americana“, fa notare il professore. “In pratica, nessuno produce più da solo ma tutti producono un pezzo di una catena del valore che produce qualcosa e poi vende a tutti. Pensare che i paesi europei possano ripartire separati significa non avere compreso quanto è avanzata l’integrazione economica e finanziaria all’interno dell’eurozona. Non siamo negli anni ’80 e tutti dipendiamo da tutti gli altri come mai prima”.
Taddei mette in guardia su quelle che potrebbero essere le insidie.“Dobbiamo stare attenti: queste risorse europee, che non sono 170 miliardi aggiuntivi se si considera il contributo dell’Italia al bilancio comunitario, ma molto di meno, vanno usate per fare tutte le scelte costose e difficili che risulterebbero, in un momento di crisi, proibitive. Usiamo quei soldi per investire in riforme strutturali del paese spiegando che queste riforme sono giuste e utili, non un obolo dall’Europa ma qualcosa che, grazie all’Europa, possiamo fare meglio”.
Sulla possibilità del loro utilizzo sul versante del taglio delle tasse, il prof. Taddei è ancora più chiaro. “Pensare di utilizzare le risorse europee del 2021 per tagliare le tasse, significa non comprendere che il governo è un problema intertemporale: se taglio le tasse quando ricevo un sostegno extra, poi, quando quel sostegno è finito e ci troviamo nel 2022, che succede alle tasse? Vanno su di nuovo, è ovvio”.
“Non sprechiamo il sostegno europeo ma usiamolo per fare in modo che in futuro saremo più protetti da crisi come quella che stiamo vivendo. Tagliare le tasse per un anno non offre alcuna protezione in più”, conclude l’accademico.
In conclusione, il Recovery Fund è un grande piano ambizioso che richiede prudenza, competenza e una strategia di investimento che vada in un sentiero di crescita. Da dimenticare quindi, il dannoso sperpero di risorse senza strategia per scopi elettorali e spesa improduttiva. Ogni centesimo ricevuto dovrà rispondere a un piano che che sia moltiplicatore di benessere. Sarà richiesta tecnica, competenza, responsabilità, a tutti i livelli istituzionali, nel pubblico e nel privato.
L’attesa è quindi per la riunione del Consiglio Europeo del 18 e 19 giugno per la potenziale approvazione del piano. Che poi dovrà ottenere il semaforo verde del Parlamento europeo e di tutti i parlamenti degli Stati membri. I quattro paesi “frugali” hanno recentemente segnalato la loro apertura per le negoziazioni. Sarà la politica a fare il resto, quella del compromesso, del consenso, dell’ottenimento della fiducia reciproca.
Come tutti i cammini, anche questo aveva bisogno del primo passo. La speranza è che sia un cammino condiviso, nella responsabilità e negli intenti, senza lasciare nessuno indietro. Questo è un bivio dei tanti che la storia presenta. La proposta è un bruco, speriamo diventi farfalla.
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